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Il cruciverba

12208305_10208144258713705_4756398487949179452_nDopo pranzo andò a gustare il caffè sul piccolo terrazzo della cucina. Aveva preso quell’abitudine da poco, solo da qualche settimana, scoprendo che l’autunno colorava di rosso e arancio gli alberi e le aiuole sottostanti. Un tappeto di colori caldi, accogliente come un salotto. Una nota romantica cui non aveva mai fatto caso, pur vivendo in quella casa da oltre dieci anni.
Donna in carriera. Fermarsi a respirare era stato un lusso, dormire una perdita di tempo. I figli, no, fagocitano energie. L’amore, sì, se arriva, ma ognuno a casa sua. Direzione convinta, legittima scelta. Nessun ripensamento, nessun rimpianto, molti viaggi e altrettanti letti  disfatti. Valigia a portata di mano, si parte, si lavora, si torna, si riparte. Era la sua vita, costruita con la tenacia degli uccelli migratori e l’ambizione del figlio promettente di un re. Ultimamente, però, una nuova sensazione si era insinuata sotto la pelle, densa e limacciosa. Una sorta di fango emotivo diffuso in tutto il corpo da una costellazione sentimentale sconosciuta, arrivata, inattesa e ineluttabile, con l’età di mezzo.
Il caffè aveva un sapore diverso sorseggiato lì, a quel terrazzo, osservatorio improvvisato di quell’autunno nuovo.
Ogni giorno, a quell’ora, la panchina accoglieva un duo mite e lento. Un’anziana dai capelli completamente bianchi e il passo incerto e una ragazza bionda e snella che le si rivolgeva in un italiano incerto ma comprensibile. Si sedevano, dopo che lei, la giovane, aveva tolto le foglie arancioni e gialle dall’aiuola, facendole volare dietro la panchina. Un ritorno di natura alla natura che risparmiava alle foglie il contatto scabro sull’asfalto, segno antropico di un progresso inarrestabile. Il volo sospinto dalla mano, che sembrava di uccelli tropicali, faceva planare le foglie sulle altre già cadute dai larici variopinti. Ogni volta, quell’interruzione d’immobilità, smuoveva altri voli, come di farfalle e di altro fogliame che improvvisava brevi moti fruscianti, quasi a smascherare l’insospettabile vitalità di una stagione di passaggio. La donna al terrazzo, sorseggiando il caffè, osservava con l’idea di un sorriso malinconico che da tutta la vita attendeva di concedersi.

Le tornò in mente quell’amore ruvido d’oltreoceano. Un’attrazione fisica incontenibile che, a distanza di anni, somigliava a un regalo ben incartato e irresistibile. Thomas. Ingegnere rampante. Sportivo e piacente. Ma non era stato quello a fare breccia, no. Era stato invece quel silenzio pieno di respiri incalzanti e promesse indefinite, il suo viso a pochissima distanza, l’alito col ricordo di una sigaretta assaggiata e poi buttata via e la barba incolta e brizzolata. Quella vicinanza così irrimediabilmente eccitante, quella minuscola distanza fra le loro labbra, dentro la quale si erano arrotolate parole mai dette eppure indubbiamente udite; nella quale erano evaporati buoni propositi e materializzati progetti leggeri e scintillanti come lustrini. Lui sposato. Padre di due figli. Lei, niente. Prigioniera della sua libertà.

La donna anziana tirò fuori dalla borsa un giornale e una matita. Quella giovane, uno scialle e glielo accomodò sulle spalle mormorando qualcosa come: se hai freddo dimmelo, Emma, tornare a casa noi due. Emma dai capelli bianchi prese a sfogliare il giornale e l’altra ad attendere qualcosa che sembrava scontato e familiare.
Intanto, la scuola oltre i giardini, regalava grida acerbe di bambini all’aria quasi satura dell’odore di sughi sui fornelli. Se chiudeva gli occhi, la donna al terrazzo, sentiva un suono unico di foglie e grida. Concentrandosi però, anche una scala al pianoforte, ripetuta con tenacia esasperante e, forse, persino il suono leggero delle pagine che Emma sfogliava con calma sotto gli occhi della sua giovane amica. Erano sempre stati lì quei suoni e non li aveva mai sentiti? Oppure nascevano con lo stupore nuovo di questa epifania inconsapevolmente attesa? Un altro sorso di caffè e ancora una tessera apposta al puzzle di quel sorriso in costruzione.

Una corsa in metrò, per dirgli che sarebbe stata ancora e sempre ciò che lui voleva, ché non c’era altro progetto, nessun rimpianto, nemmeno un dubbio, nessun ostacolo. Piuttosto, la ricerca di un antidoto a quella vorticosa parodia della vita, spesa fra aeroporti e alberghi. Corse per raggiungerlo a una conferenza, senza preavviso, mentre si chiedeva se fosse o meno amore. Entrò in silenzio nell’auditorium, arginando l’affanno del respiro e del cuore con la regola di fredda compostezza che aveva acquisito negli anni di disciplina alla carriera. Thomas relazionava, alto, elegante e a suo agio, la cuffia con microfono e auricolare gli concedeva libertà di movimento. Il busto appena ruotato per indicare l’andamento di un grafico sulla resistenza meccanica di certi materiali al rischio sismico. La voce rocciosa, a tratti calda e profonda, con quegli insospettabili bassi, ottave scoscese e aspre, che le ricordavano i sussurri e l’intimità a letto dopo il sesso. Si chiese ancora se fosse amore, mentre, in attesa che l’uomo terminasse il suo intervento, si lasciava invadere da un’ebbrezza che alleggeriva i pensieri. L’avrebbe raggiunto per dirgli che era pronta a restare tutte le volte che avrebbe avuto voglia di lei. Se lo sarebbe fatto bastare. Avrebbe lasciato l’Italia definitivamente. Senza pretesa alcuna. E nemmeno un dolore.

Emma trovò la pagina e incoraggiò la ragazza a seguirla. Cominciò a leggere, uno orizzontale, nome della nota cappella del giudizio universale, dai, lo abbiamo già trovato in un altro cruciverba, se non ti ricordi, vediamo il tre verticale. La ragazza, accento est europeo, sfogliò veloce un piccolo notes fitto di parole a penna blu e di disegni con frecce e inserti evidenziati in giallo.  Poi indicò titubante le definizioni delle parole più brevi, articoli, aggettivi possessivi, preposizioni semplici e complesse, di più il fa del, a più la fa alla. La donna anziana sorrise e la incoraggiò, vecchia maestra mai stanca, coraggio, andiamo avanti che sei bravissima. Incrociarono parole e sguardi per un po’. La matita era un ago che rammendava strappi, riconciliava il tempo degli addii e delle lontananze. Il cruciverba, una scacchiera su cui incastrare un futuro piccolo e sgomento. Giochiamo, Emma, imparo a stare nel tuo mondo.
Dal terrazzo, un sorso ancora di caffè e di inattesa commozione davanti a quella scena incastonata nell’autunno sorprendentemente mite. Desiderò il sorriso sotto le rughe ai lati della bocca.

Thomas terminò la relazione, prese gli applausi del pubblico, numeroso e visibilmente impressionato dall’intervento. Poi si diresse giù dal palco, verso la sua poltrona. Una giovane donna gli andò incontro. Non era la donna della foto di famiglia, quella madre bella e morbida con i due figli in braccio che guardava nell’obiettivo della macchina fotografica. Era poco più che una ragazza. Un progetto nuovo, o forse una nuova assenza di programmi a breve e lungo termine. Un altro letto caldo. Altri sussurri, altre parole. Oppure, le stesse che lei aveva annotato sul telefono per non dimenticarle.
Sentì le gambe allentare la tensione della postura eretta e si accasciò su una poltrona in ultima fila, invecchiata di una fanciullesca lisa, incosciente, portata all’estremo dalla convinzione di poter essere per sempre ciò che lui voleva.  Il volo di rientro la riportò in una dimensione parca, insieme a un senso inatteso di leggerezza.

Finì il caffè e si concesse qualche altro minuto, tenendo la tazzina ancora tiepida fra i palmi delle mani. Emma e la giovane straniera erano ancora lì, la loro conversazione coperta dai giochi rumorosi dei bimbi in cortile. Le foglie ai piedi dei larici accennarono un breve mulinello. Si era alzato un po’ di vento. Emma porse matita e cruciverba alla ragazza e annodò le punte dello scialle sul petto. Ancora una pagina, ancora un incrocio  e l’attesa di un ultima risposta. Brava, risposta esatta, cruciverba terminato. Il labiale fu chiaro anche da lontano. I bambini rientrarono e la ragazza prese Emma sotto braccio per rientrare.
La donna del terrazzo socchiuse gli occhi, provò a pensare alla sua vita come a una parola, un cinque orizzontale, ma ci stava larga. Riaprì gli occhi, buttò fuori la tristezza in un sospiro e non sentì dolore. Ché in fondo perdere a volte è l’unico modo per capire. E rientrando in casa, sorrise.

© giusi d’urso

 

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Amanda

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Nell’attimo che precede il risveglio vigile, un pensiero leggero, ancora onirico, impila, pianifica e stratifica fatti, nozioni, realtà e miraggi impantanati nei sogni. Incoscienza razionale, semi-lucidità creativa, eppure incorruttibile, nella precisione con cui mette in fila le faccende del quotidiano. Che ci fa la vita reale, con le sue beghe e i suoi programmi, negli ultimi preziosi istanti del sonno (e del sogno)? Qual è il suo ruolo? Quale la sua funzione?
L’uomo non sa rispondere e non si prende la briga di porvi rimedio. La domanda è retorica e mal posta, specialmente a quell’ora.
Si crogiola in quel limbo silenzioso che promette da dietro le palpebre un risveglio consono alla sua età. Mattiniero. Anche la domenica.
Si tira su con uno sbadiglio, il buongiorno a se stesso. Fuori è giorno appena. Dovrà riempire il tempo da lì alla visita con qualche faccenda che di certo non gli manca.
Amanda aspetta, nella stanzetta pulita e ordinata, contrappasso a una vita piena di inciampi e polvere.
Scende in cucina, la moka caricata la sera precedente lo attende fedele sul fornello. Da tre tazze, per non dare soddisfazione a quella solitudine che gli sta stretta. L’aroma del caffè e lo sbuffo appena fuori dal beccuccio sono promesse di una buona compagnia per la mattinata.
La tazzina fumante, il cellulare sempre acceso, ché non si sa mai, potrebbero chiamare di notte dalla casa di cura. Modalità vibrazione, così lo sente ronzare sul ripiano di legno anche dalla camera, tanto ha il sonno leggero. Il primo sorso di caffè amaro sorprende i suoi sensi, come ogni mattina da mezza vita. La prima volta senza zucchero fu terribile. Dovette rinegoziare con se stesso l’esperienza: tornare al cucchiaino di zucchero per ridurlo gradatamente, fino alla completa assenza di dolcezza. Lo aiutava a svegliarsi e a pensare lucidamente.
Sorseggia il caffè fumante e accende la tv automaticamente. Notizie. Come avvelenarsi la domenica e sapere di essere vivi in questo mondo che sembra impazzito. Un test quotidiano, esercizio di pazienza e sopportazione. Un’altra donna ammazzata per mano del suo uomo, migranti bloccati in mezzo al mare, incongruenze politiche, ingiustizie economiche. Disumanità. Un risveglio dissonante. Ma è così, lo accetta, amaro come il caffè. Il resto sembrerà più bello e salvifico.

Il cuore del padre di Amanda si fermò troppo presto, la madre divenne moglie ideale di un fattore, vedovo a sua volta e padre di quattro figli maschi.
Amanda, bimba adorata, adesso mamma deve pensare al tuo futuro, darti un padre e una nuova famiglia. Questa casa è troppo grande e vuota, una donna sola con una figlia ha bisogno di essere protetta.
Così, ci fu un matrimonio in campagna, prima dei raccolti, ché due mani in più non guastano. La terra è una fatica che pochi conoscono. Chi non si è mai sporcato le mani, né spezzato la schiena sulla terra non può sapere, non può capire, né immaginare.
Amanda crebbe in fretta tanto quanto i calli alle mani di sua madre. I quattro fratellastri, pure. Quello più grande era appena un uomo quando lei cominciò a sbocciare. Non erano fratelli, loro due. Erano estranei pur vivendo insieme. Amanda era bella, si lasciava guardare ma non si faceva toccare nemmeno per gioco, nemmeno da un fratello. Non siamo fratelli, ripeteva lui, ti voglio baciare, lasciati prendere.

La tazzina è rimasta vuota sul tavolo, come promemoria a cui l’uomo tornerà fra poco per finire il contenuto della moka. Ha ragione quando pensa che la solitudine è un contenitore accogliente, malgrado tutto. Comprerà una moka da cinque. O addirittura da sette, perché anche freddo il caffè non gli dispiace e perché potrebbe arrivare un amico, un ospite inatteso.
Si dedica al giardino, nonostante la giornata uggiosa. C’è quella pioggerella sottile e discontinua che smussa gli angoli all’afa del giorno prima e agghinda a festa l’erba lunga del prato. Quasi un peccato tagliarla mentre brilla di piccole perle lucide. Ma il tempo va riempito, altrimenti rischia di intorpidirsi coi ricordi. Amanda sta tutta intera nella sua memoria, dritta e bella. Il seno turgido, le gambe lunghe e muscolose di chi è cresciuto all’aria aperta. Prima bambina, scoordinata nei giochi in cortile, poi già donna con il ventre gonfio e l’espressione affranta di chi si porta appresso un fardello insopportabile.
L’uomo scaccia quel pensiero con un leggero movimento della testa. Se qualcuno osservasse da lontano, lo immaginerebbe infastidito da un insetto. Ma se i ricordi fossero mosche, cacciarli via sarebbe un gioco da ragazzi.

Nulla è prevedibile in amore. Amanda lo scoprì presto, insieme allo stordimento e lo sgomento di un figlio ad appena sedici anni. Fu uno scandalo. L’incesto lo è. Sotto lo stesso tetto. Con gli stessi genitori. Porcherie, solo schifose porcherie, indegne di una brava figlia. Non siamo fratelli, non è incesto, è amore. Amore, ma quale amore, assurdo chiamare così certe sconcezze! Figlia ingrata.
Il ragazzo fu allontanato per un po’. Il maschio non ha colpe. E’ cacciatore. Ma lei, la donna, una figlia di casa… La gente giudica, la gente parla, ricorda, non perdona.
Disconosciuta. Come suo figlio. Fuori dalla casa, fuori dalla vita della famiglia. Persino sua madre non fu più il suo porto sicuro.

Rinunciare all’abbraccio di una madre, un dolore insostenibile.

Il giardino ha decisamente un altro aspetto. L’uomo è soddisfatto. Torna alla moka, un altro caffè, poi la doccia e si prepara per Amanda. Mentre sceglie con cura cosa mettersi si sente un po’ ridicolo. Un ragazzino ultra-settantenne che ancora palpita e sospira per l’innamorata. E’ stata un’attesa lunghissima, la sua: il fattaccio del suo amico del podere accanto, poi l’allontanamento di lei e del suo bambino. Ripudiata. Inavvicinabile. Lui era rimasto a guardare e a soffrire senza poter fare altro. Ma il suo sguardo non si era distratto un attimo e al primo spiraglio su quel corridoio buio di maldicenze e di ripudi si era infilato nella sua vita, in punta di piedi. Senza pretendere amore, ché Amanda non era più capace di darne. Un accudimento da una distanza giusta, che non fosse causa di timori, ansie, brutti sospetti. Io sono qui. Mi avvicino solo se mi vuoi. Sono io quello che lascia alla madre superiora le mele appena colte. Sono io quello del formaggio e delle uova fresche per il tu bambino, io quello delle parole per te, lasciate nella cesta della frutta, senza la firma. Non chiedo di incontrarti, sottraggo la mia presenza ai tuoi demoni. Ti curo dal mio posto silenzioso.

Poi il vortice dell’oblio. Lui è rimasto a guardare la progressione dell’assenza e della dimenticanza e a sussurrarle poesie all’orecchio, ogni volta che ha potuto. Finalmente, vicino.

Eccolo al cancello della casa di cura. Gli viene incontro l’infermiera buona, quella che bada ai fiori freschi per la madonna in corridoio, davanti alla quale la lucidità di Amanda in un lampo ritorna e la fa genuflettere senza tentennamenti. Poi, dopo quell’attimo, torna nel suo inoppugnabile castello, occhi naufraghi, e lui al di qua del fossato, con la madonna e l’infermiera.
L’odore di pulito, con quel leggero e inconfondibile afrore di candeggina, accoglie i visitatori all’ingresso. Silenziosi, col sorriso delle visite stampato sul viso. La tristezza sarebbe un fardello di troppo, qui. C’è già tutto questo tempo, accumulato come polvere negli angoli, nebulizzato dal fiato degli anziani, di giorno in giorno, di anno in anno.
Sta bene, ha dormito stanotte, rassicura l’infermiera. È sempre molto gentile e, a volte, l’uomo si è chiesto se quelle frasi non siano di mera circostanza. Che bisogno c’è di allarmarmi, del resto, col penoso racconto di piccoli dolori, di pianti improvvisi e di richiami notturni? Amanda cerca sua madre e chiede di dormire con la luce accesa, al buio non sa dove trovare la bimba che era e che si è sperduta chissà dove.
Canta, Amanda, anche nella notte. Luce o buio, non fa differenza. La sua voce la porta indietro ai tempi felici, senza averne precisa coscienza: la scuola, suo padre e sua madre. Quegli affetti solo suoi. Senza l’obbligo di condivisione con altri che non hanno legami di sangue. Non siamo fratelli, ripete per ore, non siamo fratelli. E piange cullando il cuscino e d’improvviso lo butta per terra, seme di colpa e ripudio, mimando un rifiuto e un dolore insopportabili.

L’uomo la trova seduta con le mani incrociate sul ventre, tranquilla. Sono qui, sussurra, lei non lo vede. Lui accenna un sorriso e le prende una mano. Finalmente si guardano. Nel rapido, fugace istante del riconoscimento scorrono fotogrammi lisi per lei, fulgidi per lui. Giochi all’aperto, crescere insieme, carezze senza malizia, pudore e scompiglio, stupore, adolescenza, emozioni a pelle, l’odore di sapone che esala dalla pelle di lei, ti trovo anche se ti nascondi, no, non ti tocco, non è giusto, siamo amici, ti fidi di me, non ti tradisco. Poi, il fienile, l’altro su di lei, è successo, non sono fratelli.
Ripudiata, allontanata. Il figlio. L’abbandono.

Verdetto colpevole.

L’attimo del riconoscimento tacito fugge veloce, scende e scompare irrimediabilmente, risucchiato dal gorgo della dimenticanza. Lei ha già rimosso. Lui no. Resta seduto di fronte, imbastito al suo amore composto e tenace. Adesso è qui e lei lo sa, in un piccolo grumo di cellule fra cuore e cervello, un organo nato tardivo, come appendice salvifica. Lui apre un libro e recita Baudelaire a bassa voce. E sa che quel suono leggero arriverà dove deve.

©giusi d’urso

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Voi due sapete

IMG_2409Voi due sapete che cos’è l’amore?
Si è detto già tutto, eppure niente assomiglia a tutto questo.
Che sia io a volerlo dire a voi è solo un capriccio
dell’età
che mi fa sentire navigata. Di una navigazione
incerta e imprevedibile.
Voi non sapete che cos’è l’amore, e non lo so neanch’io.
Ma tale è la speranza d’impararlo che mi avventuro nel futuro vostro, senza diritto alcuno.
È coraggio, l’amore. Coraggio incosciente, navigazione a vista,
sale disciolto che sedimenterà.
Girasole cieco in fondo a un campo senza sole. Astro di se stesso. Punto.
È un setaccio. Filtra, seleziona,
rende ciechi, esalta intuiti rettiliani.
Scoperta che incanta e che innamora i sensi,
tacita critiche e scova adorabili difetti. Memoria di un’amigdala siamese.
Nessuno ve lo spiegherà due volte, perché nessuno
se n’è mai fatto idea duplice.
Non è come le rughe, che hanno territori prediletti.
L’amore sfugge alle mappe.
Odora di follia e desiderio di buon senso.
Discrimina, censisce, sceglie.
E poi reclama ardore come un serbatoio in secca.
Questo è l’amore? Chiedetelo domani al primo passante distratto
e vi dirà l’esatto contrario del mio dire.
Quello che non ho saputo declinare, voi due lo scoprirete insieme.

 

© giusi d’urso

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