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Racconti

Nistagmo

Ci sono nata, con questo tremolio negli occhi. Che poi, crescendo, mi è diventato familiare, quasi caro, mi viene da dire. Adesso, nella vita adulta, è come un paio di scarpe comode a cui non si può rinunciare.

Col nistagmo non si possono fare alcune cose, come prendere la mira e tutto quello che richiede la prontezza della messa a fuoco. C’è bisogno di tempo: fissare un punto preciso sopportando la nausea, e aspettare qualche secondo, a volte un po’ di più, perché tutto si definisca e si posizioni, i contorni si fermino, la visuale risulti chiara.

Sono a questa finestra da un paio d’ore. Cosa sono per me le ore, in fondo, se non ho altro da fare che rimescolare una minestra, rifare un letto, lavare un cesso? È solo il tempo che passa senza farmi male, penso, e gli sono grata. Sono grata al vuoto del tempo, a questa finestra e alla visuale sul palazzo di fronte. La mia signora è andata al lavoro, sono usciti tutti, io finisco e poi chiudo porte e finestre, inserisco l’allarme prima di andare. Ho le chiavi da anni, sono pagata a ore, nessuno mi controlla, qui sono una di famiglia, ma la mia famiglia è altrove.

La finestra di fronte ha la tenda scostata, un’altra me sta mescolando la minestra, rifacendo i letti, lavando cessi. E io che ho già finito aspetto che si affacci e si specchi. Che ci specchiamo a vicenda.

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Sono passati gli anni difficili, penso mentre cerco da qualche parte la soddisfazione, quando erano piani di scale, uffici, corridoi e gabinetti d’ospedale. Sedie e tavoli senza nomi, non si faceva in tempo a imparare nomi e immaginare storie che tutto cambiava, scemava in altri nomi, altre storie. A volte poteva capitare di carpire una conversazione, ricamarci su per qualche minuto, un’ora al massimo. Ma erano narrazioni fittizie, evaporavano come l’alcol se si lascia la bottiglia senza tappo.

In questa casa invece c’è il tempo per cose durature. Intanto, quello di fare l’abitudine ai piccoli vizi degli altri, che sono sempre uguali, come i tic. I tic sono rassicuranti, sai cosa aspettarti. L’accappatoio umido sul letto, le scarpe dietro la porta del bagno, la tazzina del caffè sul comodino. Libri, una quantità incredibile di libri, sparsi per casa, in ogni angolo, su ogni ripiano; piante grasse lasciate morire in stanze buie e asciutte. C’è la segreteria telefonica come nei film americani, le tre voci che si susseguono in frasi costruite ad hoc. Quella di lei è la più decisa, la più falsa, a lui la voce trema come a me lo sguardo, l’adolescente fa lo scemo e li prende un po’ in giro.

La tenda di fronte sta svolazzando, l’altra me ha aperto la finestra, ma non si è ancora affacciata. La immagino in cucina, a finire la pulizia di ripiani e sportelli, forse del lampadario, non so, io la faccio una volta al mese. I vetri la mia signora me li fa pulire ogni due settimane; se intanto ha piovuto, mi chiede di farli una volta in più. A casa mia i vetri erano sempre sporchi, come se non ci fossero; diventavano opachi con la pioggia, le gelate, il riverbero del sole. Nessuno li puliva mai, mia madre era sempre fuori, dietro i vetri degli altri, per farmi studiare. La mia signora, invece, ha la fissa della trasparenza.

Ieri pulendo un mobiletto del ripostiglio ho trovato un arricciacapelli ancora confezionato. Stava in fondo, insieme ad altre cose dimenticate, forse mai utilizzate. Ho aperto la confezione, dalla scatola è arrivato l’odore di oggetti nuovi e mi è sembrato di ricevere un regalo. Ho pensato che se prendo l’arricciacapelli per un po’ nessuno se ne accorgerà. La mia signora ha il capello mosso naturale, l’adolescente non ha nessun interesse per un oggetto anni ’80 come questo. Ho infilato l’arricciacapelli nella mia borsa, l’ho usato la sera dopo la doccia. Funziona. lo rimetterò al suo posto la prossima settimana.

Anch’io ho almeno un tic e riguarda i miei capelli, mi guardo le punte e tolgo quelle biforcate per secchezza o invecchiamento. Certe volte mi estraneo con questo esercizio simile allo spulciarsi delle scimmie che non è bello da vedere ma mi rilassa. Non lo faccio mentre sono qui, dove corro il rischio che qualche capello vada a finire sui tappeti appena ripuliti o su qualche ripiano appena spolverato. Mi ci metto a casa, sul divanetto davanti alla tv, mentre mangio la mia cena riscaldata. Ma se li arriccio con l’arnese che ha l’odore di un regalo, le punte restano interne al ricciolo e non le vedo.

Nella casa di fronte hanno appena aperto tutte le finestre. Vedo l’altra me affaccendarsi ancora di gran lena. Sorrido all’idea di una gara di faccende fra me e lei: io ho finito da un’ora buona e lei è ancora lì con l’affanno. Se solo si affacciasse, le racconterei delle sei rampe di scale che faccio ogni mattina evitando l’ascensore, perché così, diceva mia madre, si capisce subito che sei una a cui non fa paura faticare. E poi, dell’arricciacapelli preso in prestito, che nasconde le doppie punte e che funziona anche sui capelli ispidi se si usa un po’ di balsamo. Le chiederei se anche lei ha trovato una scatola da scartare. Potremmo essere amiche, amiche intime, quasi sorelle, se solo si affacciasse. Potremmo parlare del paese da cui veniamo, che forse è lo stesso, o forse no, ma tanto per i padroni di casa è tutto Romania, Ucraina, Russia oppure semplicemente est. Potremmo raccontarci di madri anziane e figli piccoli lasciati laggiù.

Ha spalancato le finestra. Mi pare giovanissima, forse non ha lasciato nessun figlio nell’est, ma non fa niente, potrei raccontarle dei miei e lei, forse, di sua madre. Alzo una mano per farmi notare, la finestra sta ancora vibrando nei miei occhi e i suoi lineamenti si sono sdoppiati, i contorni oscillano in linea verticale.

Mentre aspetto che tutto si fermi vedo la sua felpa beige e una fascia che le tiene su i capelli chiari e mossi, la fronte alta. Finalmente metto a fuoco. Adesso la posso vedere meglio. Lei però non ha risposto al mio saluto, forse non mi ha visto, forse non mi ha guardato. Allora riprovo, voglio che mi veda e che mi parli. Ma, niente, sembra affaccendata a spolverare gli infissi, a togliere la merda dei piccioni dal davanzale. Quello sì che è un lavoro odioso, tutta quella roba asciutta da ammorbidire con saponata calda e poi togliere stando attenti che nulla coli giù. Che qui la gente protesta per il guano sui davanzali di fronte, ma anche per la saponata che gocciola nel cortile. Sbagli sempre.

Vedi, amica del palazzo di fronte, di quante cose potremmo parlare. Ma tu non mi guardi, non mi vedi.

Lei non mi vede, forse come me ha un difetto visivo, oppure ha lo stipendio fisso, non è pagata a ore, e allora la capisco: prima finisce e prima torna a casa, non perde tempo a conversare. E se ha fretta di tornare a casa vuol dire che c’è qualcuno che l’aspetta. Oh, amica, sono felice per te. Guardami solo per un attimo che te lo dico a voce: è una gran fortuna avere qualcuno che ti aspetta. Mi sbraccio di nuovo, mi sporgo un po’ di più e saluto agitando un fazzoletto, come si faceva dalle navi che partivano per lunghi viaggi e per posti lontanissimi. Ma lei continua a lavorare senza neanche alzare lo sguardo.

Allora penso che se mi siedo sul davanzale, forse, ho una speranza. Mentre mi sollevo ho il pensiero dell’oggetto sottratto e della sua restituzione. Ma c’è questa cosa più importante adesso, questa dell’essere vista dalla mia amica, sono sicura che la mia signora capirà.

Mi sporgo, dunque, e mi arriva una voce dal palazzo di fronte. Mi sono issata sulle mani per salire meglio e adesso do le spalle alla mia me. Se quella è la sua voce, sembra allarmata; ma forse è solo il tono alto e robusto di noi donne dell’est. Intanto mi sono seduta sul davanzale, le gambe penzolano nell’aria del salotto pulitissimo. Per un attimo penso alla soddisfazione di aver fatto molto bene il mio lavoro, mentre i bordi del divano vibrano e lentamente prendono il loro posto nel mio campo visivo.

Adesso arrivo, mi verrebbe da rispondere a lei che urla, adesso mi faccio vedere. Ma meglio fare che dire, e basta poco, una minima oscillazione all’indietro.
Il cielo, col nistagmo, è sempre il cielo. Vorrei salutare l’altra me alla finestra, ma sento le braccia pesantissime e non voglio rinunciare a questa sensazione di abbandono. Nessuna vibrazione, mentre guardo l’azzurro che mi sovrasta; nessuna sfocatura, mentre me ne allontano. Che meraviglia e che sorpresa vederci per una volta così chiaro.

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ho letto un libro Racconti

Vivere è un viaggio senza mappe – Un posto difficile da raggiungere, G. Bodi

Ho letto con molto interesse l’esordio di Gianluigi Bodi. Lo aspettavo e mi ha fatto molto piacere, soprattutto dopo aver apprezzato i suoi racconti pubblicati su varie riviste letterarie e l’antologia Hotel Lavoverde che ha curato per LiberAria Editrice. La raccolta “Un posto difficile da raggiungere”, pubblicata da Arkadia Editore nella collana SideKar, è interessante per diversi motivi. Bodi racconta la vita “piccola” e il suo gusto dolce-amaro. I personaggi sono individui comuni, spesso introversi, che si misurano con i loro sogni, i loro segreti e con le vite degli altri. C’è un male di vivere sottile in ogni storia, la difficoltà di identificarsi, di collocarsi e riconoscersi un ruolo, un’utilità, un senso nel contesto in cui si vive. Sullo sfondo, in ogni storia, si dispiega un mondo ricco di contrasti, convenzioni, incongruenze, ma anche di meraviglie inattese. La città, la casa, il bosco, la fabbrica, l’ufficio, il bar aiutano a contestualizzare le storie e a dare tridimensionalità ai protagonisti. Ce n’è uno, di protagonista, ubiquitario nella raccolta, onnipresente nella vita di tutti i personaggi: è la solitudine. Solo è l’impiegato, sola la moglie del vecchio in bicicletta, solo in vecchio stesso, solo l’operaio, così come il figlio del padre pretenzioso, la neolaureata, la donna anziana, l’architetto. È una solitudine, la loro, profonda e a volte incompresa, spesso invisibile agli altri. Un sentimento (un personaggio, dicevo) offuscato dalle regole sociali, tenuto nascosto per pudore o imbarazzo. Ma se si analizzano i personaggi che Bodi fa vivere fra le pagine della sua raccolta ne individuiamo il ruolo: si tratta quasi sempre di una solitudine protettiva, necessaria a riprendere il filo della propria vita, a trovare soluzioni lontani dal frastuono del mondo. È una casa, uno spazio intimo dedicato al ragionamento, alla cura dei pensieri, un luogo in cui riprendersi ciò che davvero conta, oppure un grande specchio in cui osservarsi e riconoscersi. Non ci sono mappe chiare e predeterminate da seguire per trovare il proprio posto nel mondo, questo dice Bodi con i suoi racconti, non esistono scorciatoie o regole prescritte; al contrario ci sono il libero arbitrio, il caso, l’autodeterminazione, gli errori come monito, il futuro come sogno, la curiosità, l’ambizione, la rivalsa, l’invidia, il rimorso e la solidarietà. Direi l’armamentario sentimentale umano, complesso e dinamico, che fa di ogni relazione, soddisfacente o meno, un’esperienza che lascia le sue tracce, e di ogni esistenza un’impresa unica.
Bodi è un ottimo narratore, la cui scrittura limpida aiuta a orientarsi in certi labirinti. Leggere (e rileggere) questa raccolta è stato svuotare un sacchetto di biglie sul pavimento e seguire con curiosità le direzioni di ognuna, o se preferite, seminare a spaglio una miscellanea di sollecitazioni e attenderne i germogli. Ci vuole tempo, ci vuole solitudine, uno specchio interiore, orecchio per le vibrazioni. Ho apprezzato ogni riga, ogni storia, ogni personaggio, e tuttavia, come sempre mi accade davanti a una raccolta, ho individuato il mio racconto preferito. Quale sia, però, è un segreto fra me e il libro.

Gianluigi Bodi
(Dal sito di Arkadia Editore)
Nato nel 1975, ha vissuto a Cavallino-Treporti (Venezia) fino a che non si è trasferito in provincia di Treviso nel 2009. Lavora all’Università Ca’ Foscari del capoluogo lagunare, nella quale si è anche laureato in Lingue e letterature straniere. Nel 2013 ha fondato il blog letterario “Senzaudio”. Nel 2015 ha vinto il concorso indetto dal festival letterario CartaCarbone con il racconto Perché piango di notte. È stato inoltre finalista nel 2018 e nel 2021 al contest “8×8, si sente la voce”. Da allora ha continuato a scrivere e i suoi racconti sono apparsi su “Il primo amore”, “Pastrengo”, “Altri Animali”, “Narrandom”, “Malgrado le Mosche”, “Rivista Blam!”, “Spaghetti Writers”, “Ammatula”, “Spazinclusi”, “Crack” e su altre riviste letterarie sia digitali sia cartacee. Nel 2020 un suo racconto breve è stato incluso nella raccolta I giorni alla finestra (Il Saggiatore). Ha curato le antologie Teorie e tecniche di indipendenza (VerbaVolant, 2016) e Hotel Lagoverde (LiberAria, 2021). Un suo scritto è stato inserito in Ti racconto una canzone (Arcana, 2022). Collabora con il sito web del Premio Comisso sul quale tiene la rubrica “Venetarium”.

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#secondapelle Racconti Scrittura

Rombo di tuono

L’accesso dal piccolo terrazzo sul retro è il più sicuro, oltre che il più semplice. La porta finestra è classica, maniglia d’alluminio e serratura facile, di quelle che basta una forcina, ci si fa anche con i guanti di polietilene.
N. lo sa, ha studiato i particolari il giorno prima.
La coppia è uscita presto, come ogni giorno. N. ha aspettato che il condominio fosse di nuovo silenzioso, dopo le colazioni, dopo le uscite frettolose, le lagne dei bambini, i baci asciutti delle coppie. Andate tutti in culo, ha pensato, levatevi dalle palle che ho da fare.
Si è dovuto arrampicare poco, fino al piano rialzato; più che un’arrampicata è stata una passeggiata. Gli scemi stanno così bassi e non hanno neanche una serratura di sicurezza. Con quella, magari a un secondo o terzo piano, si sarebbe divertito di più. Ma adesso è dentro, bisogna sbrigarsi e e tornare giù.

Non c’è l’ansia, questa volta, a dargli quel brivido alla nuca, a metà fra il solletico e il dolore; forse solo una lieve vertigine che si esaurisce non appena N. mette piede nell’appartamento.
Il tavolo della cucina è ancora apparecchiato, due tazze con il fondo del caffè appiccicato, le briciole dei biscotti sulla tovaglia stampigliata male, roba scadente, da negozio cinese. N. storce la bocca. A casa sua, la mattina, c’è sempre una tovaglia pulita, perfettamente stirata; prima di uscire si rimette tutto a posto, sua madre odia trovare la cucina in disordine al rientro la sera. Sua madre odia sentire suo padre urlare e sbattere le porte per la cucina in disordine al rientro la sera.
N. procede verso la zona notte curiosando fra i ripiani dei mobili e gli armadi. Il letto è sfatto. Questi maiali vanno via così al mattino, come se non dovessero mai rientrare, come se la casa fosse un dormitorio. In bagno c’è un accappatoio per terra, un ciuffo di capelli lunghi e scuri a forma di s nel lavabo. N. con l’indice gli dà la forma della sua iniziale e fa una smorfia di disgusto.
Torna in camera da letto. Ha portato una sporta di stoffa, di quelle che sua madre accumula nei cassetti; ne porta a casa almeno una ogni volta che riesce a prendere un treno e andare a una fiera del libro. Al ritorno la svuota subito, strappa gli scontrini perché suo padre non monti su una scenata su quelle spese inutili, la piega e la ripone con le altre. Sono belle, dice, ecologiche, si lavano in lavatrice a freddo. Ecco, pensa N., dopo la lavo in lavatrice e gliela rimetto a posto, che tutta presa com’è dalle camicie di mio padre, manco se ne accorge.
Tiene in una mano la borsa e si concentra sulla cassettiera interna dell’armadio. Un paio di anelli d’oro, niente brillanti, molta bigiotteria. Avranno una cassaforte, da qualche parte, dietro il solito quadro insignificante, ma non gli interessa. Qualche abito firmato, un paio di cravatte Armani, due foulard Gucci, un orologio, ecco, un Garmin che forse vale la pena portare via.

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Ha già finito e non si è divertito. Come la volta scorsa, si chiede perché lo ha fatto.
Sbuffa, sfila il cellulare dalla tasca, dà un’occhiata alle notifiche. Si appoggia alla parete vicino alla finestra, ascolta un audio di V., che la sera prima non si è neanche accorta di straparlare, fra una pasticca e una vodka alla pesca. Ha la voce da oltretomba, non si capisce niente, forse si starà chiedendo anche lei perché fa certe cose.
N. rimette il telefono in tasca e con un dito scosta appena la tenda, attirato dal rombo di una moto. È lontana ma non troppo, sta arrivando. Guarda il palazzo di fronte, le finestre sono tutte chiuse. In strada, due passanti vanno di corsa, sguardo in terra, sono già spariti.
La moto si avvicina, N. ne immagina il modello, Yamaha YZF-R1, vediamo se indovina. Sorride, pregusta il momento in cui la vedrà sfrecciare giù in strada, ecco un divertimento. Rombo di tuono gli viene in mente, e Chuck Norris che non c’entra niente, che film di merda. N. sorride, ecco che arriva, rombo Yamaha, quanto è bella. La vede sbucare dall’angolo e avvicinarsi veloce e nervosa. Poi, lo schianto. Poi un silenzio che sembra il posto migliore per depositare le domande.

Perché la vecchia ha attraversato proprio adesso? Da dov’è sbucata? Vedi che succede, nonna, a sbagliare il momento, ti ritrovi con la testa rotta. Mia nonna, invece, è morta nel letto di un ospedale che manco c’ero, e mi è dispiaciuto, ecco. Ho sbagliato il momento, come te. Ce l’hai un nipote, tu, oppure abiti da sola?
N. ha spostato lo sguardo sulla moto che dopo aver fatto un mezzo giro per terra, inclinata sul ginocchio del centauro, si è fermata. L’uomo ha alzato un attimo la visiera del casco, ha fissato la donna immobile sull’asfalto, si è guardato intorno ed è ripartito a gran velocità. Rombo di tuono.
N. lo ha seguito con lo sguardo osservando la ruota posteriore della moto sgusciare un po’ a destra, un po’ a sinistra fino a riprendere l’equilibrio perfetto.
La vecchia è rimasta sull’asfalto. Nessuno ha visto nulla. N. guarda con attenzione la facciata del palazzo di fronte, una finestra dopo l’altra, niente, nessuno.
Scuote la testa. Cazzo, che moto.

Invece, una finestra di fronte, al terzo piano ha un lembo di tenda scostato appena. L. vede la vecchia per terra, la macchia rossa che si allarga sotto la testa, e un’ombra dietro le tende della finestra al piano rialzato. I coniugi F. sono usciti anche stamattina, come al solito, di corsa, salutandosi con la consueta freddezza e la solita espressione annoiata. L. alza le spalle e le lascia ricadere espirando dalle narici dilatate, mentre toglie il grembiule e lo appende alla spalliera di una sedia.
La vecchia è immobile. Non avrà sofferto. L. pensa che di tutte le morti che aveva immaginato per lei, conclude che quella è la migliore.
Si cambia le scarpe, scende nell’atrio ed esce dal retro.

N. si allontana dalla finestra, va verso la cucina. C’è un gran silenzio, solo il rumore ovattato delle sue scarpe di gomma sul pavimento. Fra poco, immagina N., qualcuno urlerà, poi arriverà un’ambulanza, poi la polizia. Ma adesso in questa cucina c’è un gran silenzio; vorrebbe sedersi un attimo, farsi un caffè, dire a qualcuno che non ce la fa più. Invece si dirige rapido verso la porta finestra. Poi, all’improvviso si ferma, torna indietro alla tavola apparecchiata, impila le tazze e le ripone nell’acquaio.

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malattia Racconti Scrittura

La scena perfetta – Racconto su Enne2 Rivista

D’inverno, un braccio ingessato ha i suoi vantaggi. Ad esempio, il braccio resta al caldo.

Arturo, detto Turo, si aggira di notte nei pressi della stazione. Cosa ci faccia lì, noi non lo sappiamo. Ma lo vediamo camminare con quel passo dinoccolato lungo il binario numero uno e ogni tanto fermarsi a guardare un tabellone, una pubblicità, imprecare – lo sentiamo – davanti al distributore di acqua e tramezzini.

Turo è destro, si vede dai movimenti davanti al distributore di acqua e tramezzini, nella zona della tastiera e del raccogli-monete. Non trova niente, nessuno ha lasciato resti, nessuno ha dimenticato tramezzini. Si sposta ancora più in là, lungo il binario, rimesta dentro un cestino dei rifiuti, procede senza nessun bottino fino a una panchina di cemento, sfregando la mano destra sul pantalone per scaldarla.

La panchina è occupata. Qualcuno si è sdraiato su dei cartoni e si è coperto con una trapunta logora.

Turo fa il giro della panchina. Allunga la mano destra e scuote la persona sdraiata. Quello salta in aria. Fa proprio un balzo dal cartone, con tutta la coperta sulle spalle, gli occhi sgranati che brillano nella luce gialla del lampione.

Continua a leggere: sul numero speciale “Tutti pazzi” di Enne2 eRivista letteraria

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#secondapelle #testolibero morte, paure Racconti Scrittura

Storie di cibo e sentimento

Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose

Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.

Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.


Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.


Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.


Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.

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#secondapelle Racconti Scrittura

Valzer lento

A una certa età i figli vanno per la loro strada. Paride lo ha sempre saputo. Tutti i genitori lo sanno.
E’ successo nel giro di un paio d’anni. Il ragazzo ha trovato lavoro in Francia, la ragazza, invece, una compagna in un’altra città. A Genova. Che da Pisa sono sì e no due ore di macchina. Ma lei è tornata di rado. Come darle torto con una madre come Maddalena. Contro le lesbiche Paride non ha proprio niente, sua moglie invece…
Comunque, se ne sono andati tutti, anche Maddalena, sei mesi fa, un cancro all’utero se l’è portata via.
All’inizio i figli gli hanno imposto una badante. Sonia. Cristo santissimo, Sonia la bulgara che faceva la frittata con la panna e la scorta di detersivo in polvere. Pochi mesi. Solo tre e poi anche Sonia se n’è andata per raggiungere sua figlia in Germania. Paride è stato subito chiaro: basta badanti, basta estranei, basta frittate con la panna e scorte di detersivo in polvere. E difatti è rimasto solo. Solo e contento. Ha provato un certo sollievo nel realizzare che da quel momento nessuno sarebbe arrivato a questionare sul caffellatte per cena, sul volume della radio troppo alto, le sigarette fumate alla finestra, le tute sgualcite e lise, la poca voglia di uscire.

Ora, c’è da dire che proprio solo non è. Nell’appartamento accanto abita la vedova Pochini, la Francesca, bella femmina prosperosa, con cui Paride, ad avere dieci anni di meno e con tutto il rispetto per la buonanima di Maddalena, commetterebbe volentieri qualche peccato.
Francesca non ha figli, ha due fratelli, uno abita a Lucca e si fa gli affari suoi, l’altro nessuno sa che fine abbia fatto.
Il Pochini, cardiopatico, se n’è volato via l’anno scorso durante la notte e nessuno nel palazzo si è accorto di niente fino a quando il cognato lucchese non ha affisso un piccolo annuncio mortuario accanto alle cassette della posta.

Ma quanto è stato lusinghiero per entrambi, l’abbandono.
Paride e Francesca, ognuno a casa sua, hanno cominciato a dormire fino a tardi, a vestirsi se e come vogliono. In più, da qualche tempo, ogni sera lui raggiunge lei per stare in compagnia. Su cosa facciano fino a notte alta possiamo azzardare molte ipotesi. Di certo non si annoiano, visto che Paride non rientra mai prima dell’alba.
Questa storia va avanti da poco più di un mese. I figli di Paride sembrano essersi dimenticati di lui, che di questo ringrazia il cielo ogni giorno. Fatto sta che nel palazzo, per lo più abitato da anziani malandati e badanti nordeuropee, gli unici a restare svegli fino a tardi sono soltanto i due vedovi dirimpettai, Paride e Francesca. Ormai sono così in confidenza che non hanno neanche bisogno di fissare un orario, né di suonare il campanello. Nulla li limita, né porte, né pareti. Niente convenevoli, niente smancerie. Paride si sente sempre a casa, va e viene dall’appartamento accanto con inconsueta leggerezza, un passo giovanile, un piglio spensierato. Francesca lo accoglie come uno di casa. Mettono insieme certi ricordi di quando da bambini facevano il bagno in Arno. Ci andavo con la mi’ mamma, dice lei; io con la mi’ nonna, dice lui, che però non mi lasciava anda’ nell’acqua e mi son sempre chiesto cosa mi ci portasse a fare. E di certi giochi, di certi quartieri, di certi ponti bombardati e poi ricostruiti.
Gli altri inquilini del palazzo ogni tanto sentono un rumore, della musica, una porta che sbatte, il fruscio di una tenda, una sedia spostata. Ma i vecchi palazzi, si sa, scricchiolano, si assestano. A volte sembrano cose che non sono.

Due giorni fa a casa di Paride qualcuno è entrato con le chiavi. Lui è andato a rintanarsi nello stanzino dei detersivi, si è seduto sui fustini del dixan e ha aspettato che gli estranei andassero via. Erano due, hanno fatto un rapido giro della casa, parlato di stime e costi e se ne sono andati. La sera Paride lo ha raccontato a Francesca che ha riso pensando alla scena di lui seduto sopra i detersivi. Lui per gioco l’ha rincorsa per le stanze, poi hanno immaginato cosa accadrà. Arriverà un camion zeppo di mobili, magari dei bambini rumorosi e insonni. Qualcuno riempirà lo stanzino di carta igienica e rotoloni presi a sconto, barattoli di pelati, confezioni di pastina da minestra e pellicola per alimenti. Ci sarà una sveglia alle sette del mattino e il bagno sempre occupato, le liti per chi porta giù la spazzatura, il tintinnio di chiavi all’ingresso. Poi gli anni passeranno, i bambini diventeranno uomini e lasceranno il nido. Gli adulti invecchieranno con il colesterolo alto e attenderanno il momento dell’abbandono come di una festa.
Paride e Francesca non si crucciano, sanno già come andrà a finire. Ballano un valzer lento senza fare troppo rumore.

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Territorio di nessuno

Mi sveglio ogni notte e ho paura. Anzi, ho molte paure diverse che dapprima arrivano in sequenza ordinata e sotto forma di dolori che posso riconoscere. Il rammarico, la morte, le colpe. E poi si accumulano, si accartocciano, si sovrappongono nei miei risvegli, come agli angoli di un vicolo. Si tramutano in animali notturni dentro un tronco cavo.

Mi sveglio con le mani intorpidite e uno scricchiolio alle vertebre del collo. Mi spiego ogni cosa in modo razionale. Sindrome del tunnel carpale. Artrosi dei processi cervicali. Poi divago. Procedo all’indietro. Scendo da un albero in cerca di cibo. Costringo la mia colonna alla postura eretta. Mentre nel letto accomodo i cuscini sotto il collo, mi dico che sto pagando il gesto sconsiderato dei miei progenitori: affidare la presunzione del bipedismo a una fila di piccole ossa irregolari e cave.

Avrei voglia di alzarmi ma tergiverso, per certi fantasmi che sento muovere nelle stanze, nei corridoi, mentre attraversano pareti e porte chiuse. Niente di male, penso. Ogni casa è abitata da presenze pregresse. Chissà chi c’era qui prima di me, chi è morto in questa camera che ho arredato con colori chiari e tende leggere. E prima ancora che costruissero il palazzo, che asfaltassero la strada, che le dessero il nome di un pittore sconosciuto. Chissà chi si è svegliato qui, nel cuore della notte, in preda alle sue paure.

Rientro in un dormiveglia inquieto, un posto peggiore della veglia. Un luogo saccheggiato, in cui la realtà entra senza chiedere permesso e porta via ogni tentativo di ristoro, la speranza di un sogno. Abbandona i suoi rifiuti in questo territorio di nessuno e ogni notte non faccio che ripulire, rassettare. È il dormiveglia, mi dico, lavoro inutile. Ma ci ricasco di continuo. In questo luogo dell’eterno caos si accatastano le cose che ancora devo fare, quelle che ho lasciato a metà, doveri che ho sottovalutato. E mi sento invadere dalle colpe. Da qualche parte ho letto di donne non più giovani e non ancora anziane che in certe tribù sono considerate depositarie di saggezza, guida luminosa per le altre. Risparmiano il sangue e le energie per svolgere al meglio questo compito. Dalla mia età, questo che ci si aspetta; non è più tempo di paure o sconsideratezze. Ma come si fa ad essere sagge senza il riposo della notte?

Sono di nuovo sveglia con il suono di questa domanda nelle orecchie. Meglio pensare ai fantasmi che alla propria manchevolezza.

Mi metto a leggere da un lettore digitale. Una lettura silenziosa, senza il rumore della carta. Leggo di bambini abbandonati, di favole crudeli. Quanto edulcoriamo quelle che raccontiamo ai nostri figli. Poi salto interi capitoli, cambio addirittura testo, vado a cercare un saggio sui disturbi del sonno che ho letto un anno fa. Ritrovo la storia di un uomo affetto da una grave parassonnìa che ogni notte aggredisce fisicamente sua moglie.
Anche il sonno è territorio di nessuno, vi accadono cose terribili, nessuno che controlli, nulla che argini e contenga. Resto un attimo a riflettere su quest’ultimo pensiero. Il sonno, luogo impervio. Ma la sua deprivazione non è forse causa e sintomo di follia?

Cambio posizione, mi giro sul fianco sinistro, quello in cui gli organi addominali riposano meglio. Sento il fruscio di una vestaglia lungo il corridoio. Passi piccoli e svelti di bambini. Una palla di gomma che morbida rimbalza, risate sommesse e il fumo soffiato nel bel mezzo di una frase. E non so se sto sognando o solo ricordando, mentre ancora muovo le dita, ché se la palla arriva fino a qui l’afferro. Posso giocare anch’io? Forse se mi stanco un po’, dopo riposo. Sorrido.
Ed è l’alba.

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Lezioni di gioco

Un nuovo racconto, “Lezioni di gioco”, pubblicato a pagina 30 del n.12 della rivista Offline

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Case di bambini

Una casa con un balcone che girava attorno alle stanze. Noi bambini, come sulla giostra, a cavallo delle scope, sembravamo streghe e stregoni. Mio fratello cadde e si fece male. Il sangue sulle piastrelle svelò l’incantesimo, un gioco troppo frenetico da fare su un balcone. Si alzò subito, rise della sua ferita, come i soldati reduci da una battaglia vinta. Io che di magie non mi sono mai occupata, vedendo il sangue piansi e chiamai aiuto. Non è niente, disse mia madre, prendo i cerotti. Eppure restai sgomenta e preoccupata per giorni. Ero già perduta dietro certi piccoli dolori che non passano mai. Ancora torno alle piccole ferite dei bambini, alla casa piena di voci argentine, a incidenti e cerotti rimasti laggiù. Da quelle stanze arriva di continuo l’eco infinita che sa di litigi e canzoncine. E mi pare di essere rimasta da sola ad ascoltare.

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“Sarta per uomo” su “Bomarscé”

Sulla rivista Bomarscé #3 (pag. 52) è stato appena pubblicato il mio nuovo racconto “Sarta per uomo”. Scarica qui il pdf.