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Con i piedi insanguinati

In uno dei miei dormiveglia notturni mi sono raccontata alcune storie che sapevo già. A volte ripassare serve. Per esempio a cambiare il finale. A immaginarie scenari diversi, alternativi. C’è sempre una porta che non abbiamo visto, una stanza che non abbiamo ancora abitato, un gioco con cui non abbiamo mai giocato. Vecchie foto che ritraggono, dietro noi da piccoli, parenti sconosciuti, amici di famiglia di cui non abbiamo mai sentito parlare.

Quindi, dicevo, ero in dormiveglia e mi sono raccontata delle storie. La storia di due etichette: “cose da maschi” e “cose da femmine”. Giocare al flipper era da maschi, etichetta azzurra; con le bambole da femmine, al mercato, pure, da femmine, etichetta rosa. Alla mamma e al papà, sei maschio fai il papà, sei femmina fai la mamma. Al dottore, maschio, la femmina era l’infermiera o la paziente. Ai cowboy non ci giocavo mai. Semmai, in casi estremi, facevo il cavallo o la prigioniera Sioux. I soldatini e le macchinine erano da maschi e quindi ringraziavo mille volte se mio fratello mi ci faceva giocare quando restava a corto di amici.
Ho ripassato poi quell’altra storia, quella della bambola appena ricevuta in regalo che ritrovai con i capelli tagliuzzati da un serial killer presente alla festa, e ho cambiato la fine.
Il dormiveglia talvolta è magico.
Finale nuovo. Alla festa del mio ottavo compleanno nessuno ha regalato bambole, orecchini, braccialetti e calzettoni rosa: non ricordo cosa hanno portato gli invitati alla mia finta festa. Ma di sicuro abbiamo fatto mille giochi di società, poi, nascondino per casa. Dopo la torta ci siamo seduti a raccontare storie di fantasmi. E tutti, bambine e bambini, ne abbiamo avuto paura.

Di un’altra storia nel dormiveglia ho cambiato il finale. Una giovane donna sta lavorando per una tv, ha un microfono in mano, fa la sintesi di un evento sportivo. Un uomo le passa accanto e le palpeggia il sedere. Non la conosce, non c’è alcuna intimità, non le ha chiesto il permesso, non si è fermato a scusarsi. Dallo studio il collega della donna ha minimizzato e continuato come se niente fosse. Invece, no.
Dormiveglia magico.
La parte nuova della storia: il collega dallo studio interrompe il programma e dichiara che è successa una cosa grave e spiacevole, che il collegamento finisce lì, che la tv e i suoi dipendenti sono solidali con la giovane collega, che qualcuno dallo studio sta già chiamando la polizia per segnalare l’accaduto, che queste cose non devono più accadere.

Poi credo di essermi addormentata e aver sognato altre storie. Fatte e finite. Un sacco di etichette rosa e azzurro dal mio precedente dormiveglia non so come sono finite qui.
Ci sono due sorellastre a cui viene chiesto di calzare una piccola scarpa di cristallo per dimostrarsi degne di sposare un principe. Una ha l’alluce troppo grosso. Tagliati il dito, dice la madre. Lei si taglia il dito e calza la scarpa. Il sangue fuoriesce a fiotti ed è ben visibile a tutti. Non è degna. Allora tocca alla sorella che però ha il calcagno troppo sporgente. Tagliati un pezzo di calcagno, dice la madre. Lei obbedisce e calza la scarpetta. Ma nemmeno lei risulta degna dell’uomo da sposare.

Appena sveglia voglio cercare un nuovo dormiveglia, la porta che mi è sfuggita, e cambiare questo finale, mi dico nel sonno. Anzi, lo racconto all’uomo che tiene in mano la scarpetta di cristallo. Lui mi guarda basito, poi ritrova la voce e mi apostrofa: ce l’abbiamo già il finale, sappiamo già chi sposerà il principe e tu non puoi farci niente, non puoi salvare nessuno. Le vogliamo belle, a palazzo, umili e obbedienti. Rassegnati e continua pure a dormire. Credo anche che mi abbia chiamata “povera illusa” ma non ci giurerei, stavo per svegliarmi, mi ero già allontanata.

Mi sono svegliata e non sono riuscita più a dormire, né a ritrovare la porta che cercavo, un altro dormiveglia. La storia è rimasta quella, fatta e finita, con l’uomo saccente che regge la scarpetta.
Sono rimasta la stessa anch’io, dopo tutto, sfatta e sfinita.
per un bel pezzo, immobile e impotente sotto le coperte, a fare i conti con le mie porte chiuse e i miei piedi insanguinati.

… vide il sangue che sgorgava sdalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze bianche*.

*J e W. Grimm, Fiabe. Einaudi. Traduzione di C. Bovero, prefazione di G. Cocchiara

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Territorio di nessuno

Mi sveglio ogni notte e ho paura. Anzi, ho molte paure diverse che dapprima arrivano in sequenza ordinata e sotto forma di dolori che posso riconoscere. Il rammarico, la morte, le colpe. E poi si accumulano, si accartocciano, si sovrappongono nei miei risvegli, come agli angoli di un vicolo. Si tramutano in animali notturni dentro un tronco cavo.

Mi sveglio con le mani intorpidite e uno scricchiolio alle vertebre del collo. Mi spiego ogni cosa in modo razionale. Sindrome del tunnel carpale. Artrosi dei processi cervicali. Poi divago. Procedo all’indietro. Scendo da un albero in cerca di cibo. Costringo la mia colonna alla postura eretta. Mentre nel letto accomodo i cuscini sotto il collo, mi dico che sto pagando il gesto sconsiderato dei miei progenitori: affidare la presunzione del bipedismo a una fila di piccole ossa irregolari e cave.

Avrei voglia di alzarmi ma tergiverso, per certi fantasmi che sento muovere nelle stanze, nei corridoi, mentre attraversano pareti e porte chiuse. Niente di male, penso. Ogni casa è abitata da presenze pregresse. Chissà chi c’era qui prima di me, chi è morto in questa camera che ho arredato con colori chiari e tende leggere. E prima ancora che costruissero il palazzo, che asfaltassero la strada, che le dessero il nome di un pittore sconosciuto. Chissà chi si è svegliato qui, nel cuore della notte, in preda alle sue paure.

Rientro in un dormiveglia inquieto, un posto peggiore della veglia. Un luogo saccheggiato, in cui la realtà entra senza chiedere permesso e porta via ogni tentativo di ristoro, la speranza di un sogno. Abbandona i suoi rifiuti in questo territorio di nessuno e ogni notte non faccio che ripulire, rassettare. È il dormiveglia, mi dico, lavoro inutile. Ma ci ricasco di continuo. In questo luogo dell’eterno caos si accatastano le cose che ancora devo fare, quelle che ho lasciato a metà, doveri che ho sottovalutato. E mi sento invadere dalle colpe. Da qualche parte ho letto di donne non più giovani e non ancora anziane che in certe tribù sono considerate depositarie di saggezza, guida luminosa per le altre. Risparmiano il sangue e le energie per svolgere al meglio questo compito. Dalla mia età, questo che ci si aspetta; non è più tempo di paure o sconsideratezze. Ma come si fa ad essere sagge senza il riposo della notte?

Sono di nuovo sveglia con il suono di questa domanda nelle orecchie. Meglio pensare ai fantasmi che alla propria manchevolezza.

Mi metto a leggere da un lettore digitale. Una lettura silenziosa, senza il rumore della carta. Leggo di bambini abbandonati, di favole crudeli. Quanto edulcoriamo quelle che raccontiamo ai nostri figli. Poi salto interi capitoli, cambio addirittura testo, vado a cercare un saggio sui disturbi del sonno che ho letto un anno fa. Ritrovo la storia di un uomo affetto da una grave parassonnìa che ogni notte aggredisce fisicamente sua moglie.
Anche il sonno è territorio di nessuno, vi accadono cose terribili, nessuno che controlli, nulla che argini e contenga. Resto un attimo a riflettere su quest’ultimo pensiero. Il sonno, luogo impervio. Ma la sua deprivazione non è forse causa e sintomo di follia?

Cambio posizione, mi giro sul fianco sinistro, quello in cui gli organi addominali riposano meglio. Sento il fruscio di una vestaglia lungo il corridoio. Passi piccoli e svelti di bambini. Una palla di gomma che morbida rimbalza, risate sommesse e il fumo soffiato nel bel mezzo di una frase. E non so se sto sognando o solo ricordando, mentre ancora muovo le dita, ché se la palla arriva fino a qui l’afferro. Posso giocare anch’io? Forse se mi stanco un po’, dopo riposo. Sorrido.
Ed è l’alba.