Amanda

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Nell’attimo che precede il risveglio vigile, un pensiero leggero, ancora onirico, impila, pianifica e stratifica fatti, nozioni, realtà e miraggi impantanati nei sogni. Incoscienza razionale, semi-lucidità creativa, eppure incorruttibile, nella precisione con cui mette in fila le faccende del quotidiano. Che ci fa la vita reale, con le sue beghe e i suoi programmi, negli ultimi preziosi istanti del sonno (e del sogno)? Qual è il suo ruolo? Quale la sua funzione?
L’uomo non sa rispondere e non si prende la briga di porvi rimedio. La domanda è retorica e mal posta, specialmente a quell’ora.
Si crogiola in quel limbo silenzioso che promette da dietro le palpebre un risveglio consono alla sua età. Mattiniero. Anche la domenica.
Si tira su con uno sbadiglio, il buongiorno a se stesso. Fuori è giorno appena. Dovrà riempire il tempo da lì alla visita con qualche faccenda che di certo non gli manca.
Amanda aspetta, nella stanzetta pulita e ordinata, contrappasso a una vita piena di inciampi e polvere.
Scende in cucina, la moka caricata la sera precedente lo attende fedele sul fornello. Da tre tazze, per non dare soddisfazione a quella solitudine che gli sta stretta. L’aroma del caffè e lo sbuffo appena fuori dal beccuccio sono promesse di una buona compagnia per la mattinata.
La tazzina fumante, il cellulare sempre acceso, ché non si sa mai, potrebbero chiamare di notte dalla casa di cura. Modalità vibrazione, così lo sente ronzare sul ripiano di legno anche dalla camera, tanto ha il sonno leggero. Il primo sorso di caffè amaro sorprende i suoi sensi, come ogni mattina da mezza vita. La prima volta senza zucchero fu terribile. Dovette rinegoziare con se stesso l’esperienza: tornare al cucchiaino di zucchero per ridurlo gradatamente, fino alla completa assenza di dolcezza. Lo aiutava a svegliarsi e a pensare lucidamente.
Sorseggia il caffè fumante e accende la tv automaticamente. Notizie. Come avvelenarsi la domenica e sapere di essere vivi in questo mondo che sembra impazzito. Un test quotidiano, esercizio di pazienza e sopportazione. Un’altra donna ammazzata per mano del suo uomo, migranti bloccati in mezzo al mare, incongruenze politiche, ingiustizie economiche. Disumanità. Un risveglio dissonante. Ma è così, lo accetta, amaro come il caffè. Il resto sembrerà più bello e salvifico.

Il cuore del padre di Amanda si fermò troppo presto, la madre divenne moglie ideale di un fattore, vedovo a sua volta e padre di quattro figli maschi.
Amanda, bimba adorata, adesso mamma deve pensare al tuo futuro, darti un padre e una nuova famiglia. Questa casa è troppo grande e vuota, una donna sola con una figlia ha bisogno di essere protetta.
Così, ci fu un matrimonio in campagna, prima dei raccolti, ché due mani in più non guastano. La terra è una fatica che pochi conoscono. Chi non si è mai sporcato le mani, né spezzato la schiena sulla terra non può sapere, non può capire, né immaginare.
Amanda crebbe in fretta tanto quanto i calli alle mani di sua madre. I quattro fratellastri, pure. Quello più grande era appena un uomo quando lei cominciò a sbocciare. Non erano fratelli, loro due. Erano estranei pur vivendo insieme. Amanda era bella, si lasciava guardare ma non si faceva toccare nemmeno per gioco, nemmeno da un fratello. Non siamo fratelli, ripeteva lui, ti voglio baciare, lasciati prendere.

La tazzina è rimasta vuota sul tavolo, come promemoria a cui l’uomo tornerà fra poco per finire il contenuto della moka. Ha ragione quando pensa che la solitudine è un contenitore accogliente, malgrado tutto. Comprerà una moka da cinque. O addirittura da sette, perché anche freddo il caffè non gli dispiace e perché potrebbe arrivare un amico, un ospite inatteso.
Si dedica al giardino, nonostante la giornata uggiosa. C’è quella pioggerella sottile e discontinua che smussa gli angoli all’afa del giorno prima e agghinda a festa l’erba lunga del prato. Quasi un peccato tagliarla mentre brilla di piccole perle lucide. Ma il tempo va riempito, altrimenti rischia di intorpidirsi coi ricordi. Amanda sta tutta intera nella sua memoria, dritta e bella. Il seno turgido, le gambe lunghe e muscolose di chi è cresciuto all’aria aperta. Prima bambina, scoordinata nei giochi in cortile, poi già donna con il ventre gonfio e l’espressione affranta di chi si porta appresso un fardello insopportabile.
L’uomo scaccia quel pensiero con un leggero movimento della testa. Se qualcuno osservasse da lontano, lo immaginerebbe infastidito da un insetto. Ma se i ricordi fossero mosche, cacciarli via sarebbe un gioco da ragazzi.

Nulla è prevedibile in amore. Amanda lo scoprì presto, insieme allo stordimento e lo sgomento di un figlio ad appena sedici anni. Fu uno scandalo. L’incesto lo è. Sotto lo stesso tetto. Con gli stessi genitori. Porcherie, solo schifose porcherie, indegne di una brava figlia. Non siamo fratelli, non è incesto, è amore. Amore, ma quale amore, assurdo chiamare così certe sconcezze! Figlia ingrata.
Il ragazzo fu allontanato per un po’. Il maschio non ha colpe. E’ cacciatore. Ma lei, la donna, una figlia di casa… La gente giudica, la gente parla, ricorda, non perdona.
Disconosciuta. Come suo figlio. Fuori dalla casa, fuori dalla vita della famiglia. Persino sua madre non fu più il suo porto sicuro.

Rinunciare all’abbraccio di una madre, un dolore insostenibile.

Il giardino ha decisamente un altro aspetto. L’uomo è soddisfatto. Torna alla moka, un altro caffè, poi la doccia e si prepara per Amanda. Mentre sceglie con cura cosa mettersi si sente un po’ ridicolo. Un ragazzino ultra-settantenne che ancora palpita e sospira per l’innamorata. E’ stata un’attesa lunghissima, la sua: il fattaccio del suo amico del podere accanto, poi l’allontanamento di lei e del suo bambino. Ripudiata. Inavvicinabile. Lui era rimasto a guardare e a soffrire senza poter fare altro. Ma il suo sguardo non si era distratto un attimo e al primo spiraglio su quel corridoio buio di maldicenze e di ripudi si era infilato nella sua vita, in punta di piedi. Senza pretendere amore, ché Amanda non era più capace di darne. Un accudimento da una distanza giusta, che non fosse causa di timori, ansie, brutti sospetti. Io sono qui. Mi avvicino solo se mi vuoi. Sono io quello che lascia alla madre superiora le mele appena colte. Sono io quello del formaggio e delle uova fresche per il tu bambino, io quello delle parole per te, lasciate nella cesta della frutta, senza la firma. Non chiedo di incontrarti, sottraggo la mia presenza ai tuoi demoni. Ti curo dal mio posto silenzioso.

Poi il vortice dell’oblio. Lui è rimasto a guardare la progressione dell’assenza e della dimenticanza e a sussurrarle poesie all’orecchio, ogni volta che ha potuto. Finalmente, vicino.

Eccolo al cancello della casa di cura. Gli viene incontro l’infermiera buona, quella che bada ai fiori freschi per la madonna in corridoio, davanti alla quale la lucidità di Amanda in un lampo ritorna e la fa genuflettere senza tentennamenti. Poi, dopo quell’attimo, torna nel suo inoppugnabile castello, occhi naufraghi, e lui al di qua del fossato, con la madonna e l’infermiera.
L’odore di pulito, con quel leggero e inconfondibile afrore di candeggina, accoglie i visitatori all’ingresso. Silenziosi, col sorriso delle visite stampato sul viso. La tristezza sarebbe un fardello di troppo, qui. C’è già tutto questo tempo, accumulato come polvere negli angoli, nebulizzato dal fiato degli anziani, di giorno in giorno, di anno in anno.
Sta bene, ha dormito stanotte, rassicura l’infermiera. È sempre molto gentile e, a volte, l’uomo si è chiesto se quelle frasi non siano di mera circostanza. Che bisogno c’è di allarmarmi, del resto, col penoso racconto di piccoli dolori, di pianti improvvisi e di richiami notturni? Amanda cerca sua madre e chiede di dormire con la luce accesa, al buio non sa dove trovare la bimba che era e che si è sperduta chissà dove.
Canta, Amanda, anche nella notte. Luce o buio, non fa differenza. La sua voce la porta indietro ai tempi felici, senza averne precisa coscienza: la scuola, suo padre e sua madre. Quegli affetti solo suoi. Senza l’obbligo di condivisione con altri che non hanno legami di sangue. Non siamo fratelli, ripete per ore, non siamo fratelli. E piange cullando il cuscino e d’improvviso lo butta per terra, seme di colpa e ripudio, mimando un rifiuto e un dolore insopportabili.

L’uomo la trova seduta con le mani incrociate sul ventre, tranquilla. Sono qui, sussurra, lei non lo vede. Lui accenna un sorriso e le prende una mano. Finalmente si guardano. Nel rapido, fugace istante del riconoscimento scorrono fotogrammi lisi per lei, fulgidi per lui. Giochi all’aperto, crescere insieme, carezze senza malizia, pudore e scompiglio, stupore, adolescenza, emozioni a pelle, l’odore di sapone che esala dalla pelle di lei, ti trovo anche se ti nascondi, no, non ti tocco, non è giusto, siamo amici, ti fidi di me, non ti tradisco. Poi, il fienile, l’altro su di lei, è successo, non sono fratelli.
Ripudiata, allontanata. Il figlio. L’abbandono.

Verdetto colpevole.

L’attimo del riconoscimento tacito fugge veloce, scende e scompare irrimediabilmente, risucchiato dal gorgo della dimenticanza. Lei ha già rimosso. Lui no. Resta seduto di fronte, imbastito al suo amore composto e tenace. Adesso è qui e lei lo sa, in un piccolo grumo di cellule fra cuore e cervello, un organo nato tardivo, come appendice salvifica. Lui apre un libro e recita Baudelaire a bassa voce. E sa che quel suono leggero arriverà dove deve.

©giusi d’urso

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