

Ieri sera, anzi stanotte, ho terminato la lettura de “Il peso dell’assenza“, romanzo di Gianluigi Bodi, in uscita il 26 aprile per Les Flâneurs Edizioni. Ho avuto l’occasione, il dono direi, di leggere questa storia prima della pubblicazione e mi sono subito resa conto che dovevo abbandonare la mia consueta postura di lettrice vorace. Pur trattandosi di un romanzo non particolarmente corposo, quindi, mi sono concessa un tempo di lettura lento, e anche ieri sera, come ho fatto sin dalla prima pagina letta, ho atteso che tutti dormissero e che la casa fosse immersa nel silenzio.
Ecco qualche riflessione su questo libro che spero abbia il successo che merita.
Qualche accenno alla trama. Il protagonista del romanzo, che è anche la voce narrante, cerca di ricostruire una storia mentre si aggira per Venezia in preda a un’immensa nostalgia per Silvia, la donna che ha amato. Ma i suoi ricordi, procedendo nella narrazione, diventano tessere difficili da collocare. Così la vita passata sembra un puzzle impossibile, la cui ricostruzione è resa ancora più caotica e dolorosa dalla comparsa improvvisa di un personaggio molto particolare: un clown di nome Barrante. Ogni volta che Barrante appare accadono cose terrificanti, Venezia subisce terribili trasformazioni; le calli, le piazze, i campanili e i ponti esplodono e riducono in mille pezzi i paesaggi cari e familiari al protagonista. I cocci rimasti non restituiscono alcuna memoria, anzi la devastano, la destrutturano sempre di più. L’uomo allora è costretto a ricominciare da capo, ogni mattina, tentando di venire a capo della storia, cambiando sestiere, evitando come può l’apparizione improvvisa di Barrante, sperando di richiamare alla mente la sua Silvia e le cose vissute insieme. Ma ogni volta accade qualcosa che lo riporta nel caos e lo costringe a ripetere il tentativo di nuovo e ancora, come Sisifo col suo masso.
Andando avanti nel racconto, anche i personaggi si modificano: nell’aspetto, nei dialoghi, ma soprattutto nel ruolo e nelle relazioni, tanto che il protagonista stenta a posizionarli e contestualizzarli. Piano piano tutto sembra sgretolarsi e ricomporsi altrove, in una realtà parallela difficile da afferrare: lo sgomento del protagonista diventa anche quello del lettore che a un tratto si ritrova a girovagare, anch’egli disorientato, per una Venezia irriconoscibile e attraverso una narrazione non più lineare.
E’ una storia che procede per dolorosa sottrazione, per ripetuti sgretolamenti, quella raccontata da Bodi, e che affronta temi importanti. In primo luogo, lo scorrere del tempo, topos eterno e universale. Come può l’uomo rallentare l’inesorabile macchina temporale e afferrare nuovamente la felicità di certi momenti passati? Come può trattenerli nella sua mente e trasformarli in consolazione se sfuggono così rapidamente e senza rimedio? Ed ecco l’altro tema fondante del romanzo, cioè la memoria. Quando il tempo divora ogni cosa senza lasciare alcuna traccia nei nostri ricordi, la vita si riduce a uno stato di costante disorientamento, nel terrore di non avere più appigli, nell’ansia terribile che un clown dispettoso e cinico distrugga tutto ciò a cui siamo legati. Cosa resta quando la memoria si sgretola? Rimane, appunto, il peso della sua assenza: senza la memoria siamo aloni lasciati da quadri dismessi, frantumati, mai più recuperati.
Per leggere questo libro ho avuto bisogno di un silenzio pressoché totale. Alla fine, ho accompagnato mentalmente la lettura degli ultimi capitoli con Concerto in do minore di Anonimo veneziano, per affezione al film, al successivo romanzo di Berto e per mille altri motivi che non sto qui a spiegare. Ho mantenuto quella musica e quella storia fra i pensieri, insieme alla Venezia decadente, alla consapevolezza amara di una fine imminente e dei sentimenti che legano le persone al di là delle avversità e oltre il tempo.
L’armonia struggente dell’oboe ha accompagnato il mio immaginario di lettrice de “Il peso dell’assenza” fino a tarda notte, insieme alla commozione per questa storia che Gianluigi Bodi ha scritto con grande delicatezza e rispetto. Non era facile maneggiare una materia così fragile, ma Bodi, autore attento e profondo, ci è riuscito.
Gianluigi Bodi è nato 1975. Nel 2013 ha fondato il blog letterario Senzaudio. Nel 2015 ha vinto il concorso del Festival letterario CartaCarbone con il racconto Perché piango di notte. È stato due volte finalista al contest 8×8. Suoi racconti sono apparsi su numerose riviste, oltre che nelle raccolte I giorni alla finestra (Il Saggiatore, 2020) e Ti racconto una canzone (Arcana, 2022). Ha curato due antologie di autori vari, Teorie e tecniche di indipendenza (Verbavolant, 2016) e Hotel Lagoverde (Liberaria, 2021). Nel 2023 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Un posto difficile da raggiungere (Arkadia). Il peso dell’assenza è il suo primo romanzo.
(dal sito dell’editore)
Laura Scaramozzino, autrice della novella J- Card, pubblicata da [2] [5] [6] edizioni, ci racconta un mondo distopico in cui la società è suddivisa in abbienti e non abbienti: il discrimine è una tessera che permette l’accesso a una particolare tipologia alimentare. Chi ha un reddito basso e una posizione sociale inferiore può, tramite una J-Card, accedere solo a cibo spazzatura (junk food) e avviarsi verso un futuro di malattie e morte precoce; chi invece beneficia di un reddito alto può alimentarsi con cibo buono e sano (healty food) attraverso alla H-Card, assicurandosi così una vita longeva e in salute.
Adele, donna benestante con alle spalle un rapporto morboso e tossico con il fratello Carlo, vive la sua esistenza nella condizione di donna infertile e incapace di relazioni amorose sane. L’incontro con Francesco, orfano non abbiente, accende un istinto materno che presto diventa ossessione, induce Adele a fare i conti con il suo passato e a compiere scelte estreme. Il destino dei due protagonisti, Adele e Francesco, si dipana in un’atmosfera cupa, attraverso avvenimenti misteriosi e terribili.
Nonostante si tratti di finzione letteraria, nella novella di Laura Scaramozzino troviamo tratti comuni alla nostra realtà. Sappiamo ormai da molti decenni che l’accesso al cibo sano rappresenta una strategia preventiva fondamentale nei confronti della maggior parte delle patologie tipiche del mondo industrializzato. Il cibo sottoposto a manipolazioni industriali, il cosiddetto junk food, fonte di grassi saturi e additivi, è sì economicamente più accessibile, ma senza dubbio meno salutare. Inoltre l’accesso facilitato (pensiamo alle forniture varie e abbondanti dei grandi supermercati, oppure al fenomeno più recente del delivery), ne consente una diffusione capillare in tutti gli strati sociali, determinando così anche la diffusione dei fattori di rischio connessi.
La ricerca biomedica degli ultimi decenni indica chiaramente la responsabilità della cattiva alimentazione (e della sedentarietà) nell’insorgenza di patologie non geneticamente trasmissibili. Ciononostante la medicina è rivolta soprattutto alla diagnosi e alla terapia, concedendo ben poco spazio alle strategie di prevenzione attraverso la sana alimentazione. Va da sé che, in un contesto sociale in cui l’accesso al cibo di qualità è dispendioso e la tutela della salute è concentrata soprattutto sulle terapie, la prevenzione attraverso la sana alimentazione viene automaticamente posta in secondo piano.
Torniamo alla novella di Laura Scaramozzino: la società è divisa in due e il discrimine, cioè il possesso dell’una o dell’altra card, riguarda e condiziona il bisogno primario per eccellenza: la necessita di nutrirsi. Ne nasce una narrazione dai toni cupi e non potrebbe essere altrimenti. Come può presentarsi, infatti, una società in cui la salute fisica sia una condizione legata al reddito? Quale convivenza si può auspicare fra i cittadini che la compongono? E ancora, come può un essere umano sostenere il peso di tale discrimine, senza abbandonarsi all’egoismo da una parte e alla disperazione dall’altra?
Ma, nonostante la netta suddivisione operata dalle food-card, nella storia raccontata da Scaramozzino esiste un tragico denominatore comune: il disagio psichico. Poiché ogni individuo necessità, oltre che di cibo, di nutrimento emotivo e sentimentale, tutti i personaggi, abbienti o meno, in questo senso egualmente affamati, mostrano una fragilità profonda che condiziona le loro esistenze. Dall’ossessione alla morbosità, dalla depressione alla disforia, ognuno degli attori di questa storia si muove spinto da un’intima insensatezza che travolge ogni cosa, a dispetto del buon cibo in dispensa o, viceversa, di concerto al destino tragicamente segnato dal cancro o dal diabete.
J-Card è dunque la storia di una società deprivata: ogni individuo che ne faccia parte vive e dispera nella mancanza di qualcosa. E’ la storia delle vite “senza”.
La lettura di J-Card sollecita una riflessione profonda, complice una scrittura limpida e tagliente che sbarra qualunque via d’uscita comoda e rassicurante. La storia e il linguaggio in questa novella sono la stessa cosa: sono il pensiero con cui dopo aver letto ci arrovelliamo, l’incubo che potrebbe agitare le nostre notti, la paura che tutto possa avverarsi.
Conoscevo già questa giovane autrice attraverso i suoi racconti. La novella J-Card è un è una piacevole conferma della sua bravura.
Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello) di Sandro Campani, edito da Einaudi, odora di boschi e montagne che sopravvivono all’uomo e al suo «demonio della vita accelerata». Non si tratta di un romanzo né di una raccolta di racconti, anche se alcuni capitoli ne ricordano la struttura. Allora cos’è il libro di Campani?
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Ci sono nata, con questo tremolio negli occhi. Che poi, crescendo, mi è diventato familiare, quasi caro, mi viene da dire. Adesso, nella vita adulta, è come un paio di scarpe comode a cui non si può rinunciare.
Col nistagmo non si possono fare alcune cose, come prendere la mira e tutto quello che richiede la prontezza della messa a fuoco. C’è bisogno di tempo: fissare un punto preciso sopportando la nausea, e aspettare qualche secondo, a volte un po’ di più, perché tutto si definisca e si posizioni, i contorni si fermino, la visuale risulti chiara.
Sono a questa finestra da un paio d’ore. Cosa sono per me le ore, in fondo, se non ho altro da fare che rimescolare una minestra, rifare un letto, lavare un cesso? È solo il tempo che passa senza farmi male, penso, e gli sono grata. Sono grata al vuoto del tempo, a questa finestra e alla visuale sul palazzo di fronte. La mia signora è andata al lavoro, sono usciti tutti, io finisco e poi chiudo porte e finestre, inserisco l’allarme prima di andare. Ho le chiavi da anni, sono pagata a ore, nessuno mi controlla, qui sono una di famiglia, ma la mia famiglia è altrove.
La finestra di fronte ha la tenda scostata, un’altra me sta mescolando la minestra, rifacendo i letti, lavando cessi. E io che ho già finito aspetto che si affacci e si specchi. Che ci specchiamo a vicenda.
Sono passati gli anni difficili, penso mentre cerco da qualche parte la soddisfazione, quando erano piani di scale, uffici, corridoi e gabinetti d’ospedale. Sedie e tavoli senza nomi, non si faceva in tempo a imparare nomi e immaginare storie che tutto cambiava, scemava in altri nomi, altre storie. A volte poteva capitare di carpire una conversazione, ricamarci su per qualche minuto, un’ora al massimo. Ma erano narrazioni fittizie, evaporavano come l’alcol se si lascia la bottiglia senza tappo.
In questa casa invece c’è il tempo per cose durature. Intanto, quello di fare l’abitudine ai piccoli vizi degli altri, che sono sempre uguali, come i tic. I tic sono rassicuranti, sai cosa aspettarti. L’accappatoio umido sul letto, le scarpe dietro la porta del bagno, la tazzina del caffè sul comodino. Libri, una quantità incredibile di libri, sparsi per casa, in ogni angolo, su ogni ripiano; piante grasse lasciate morire in stanze buie e asciutte. C’è la segreteria telefonica come nei film americani, le tre voci che si susseguono in frasi costruite ad hoc. Quella di lei è la più decisa, la più falsa, a lui la voce trema come a me lo sguardo, l’adolescente fa lo scemo e li prende un po’ in giro.
La tenda di fronte sta svolazzando, l’altra me ha aperto la finestra, ma non si è ancora affacciata. La immagino in cucina, a finire la pulizia di ripiani e sportelli, forse del lampadario, non so, io la faccio una volta al mese. I vetri la mia signora me li fa pulire ogni due settimane; se intanto ha piovuto, mi chiede di farli una volta in più. A casa mia i vetri erano sempre sporchi, come se non ci fossero; diventavano opachi con la pioggia, le gelate, il riverbero del sole. Nessuno li puliva mai, mia madre era sempre fuori, dietro i vetri degli altri, per farmi studiare. La mia signora, invece, ha la fissa della trasparenza.
Ieri pulendo un mobiletto del ripostiglio ho trovato un arricciacapelli ancora confezionato. Stava in fondo, insieme ad altre cose dimenticate, forse mai utilizzate. Ho aperto la confezione, dalla scatola è arrivato l’odore di oggetti nuovi e mi è sembrato di ricevere un regalo. Ho pensato che se prendo l’arricciacapelli per un po’ nessuno se ne accorgerà. La mia signora ha il capello mosso naturale, l’adolescente non ha nessun interesse per un oggetto anni ’80 come questo. Ho infilato l’arricciacapelli nella mia borsa, l’ho usato la sera dopo la doccia. Funziona. lo rimetterò al suo posto la prossima settimana.
Anch’io ho almeno un tic e riguarda i miei capelli, mi guardo le punte e tolgo quelle biforcate per secchezza o invecchiamento. Certe volte mi estraneo con questo esercizio simile allo spulciarsi delle scimmie che non è bello da vedere ma mi rilassa. Non lo faccio mentre sono qui, dove corro il rischio che qualche capello vada a finire sui tappeti appena ripuliti o su qualche ripiano appena spolverato. Mi ci metto a casa, sul divanetto davanti alla tv, mentre mangio la mia cena riscaldata. Ma se li arriccio con l’arnese che ha l’odore di un regalo, le punte restano interne al ricciolo e non le vedo.
Nella casa di fronte hanno appena aperto tutte le finestre. Vedo l’altra me affaccendarsi ancora di gran lena. Sorrido all’idea di una gara di faccende fra me e lei: io ho finito da un’ora buona e lei è ancora lì con l’affanno. Se solo si affacciasse, le racconterei delle sei rampe di scale che faccio ogni mattina evitando l’ascensore, perché così, diceva mia madre, si capisce subito che sei una a cui non fa paura faticare. E poi, dell’arricciacapelli preso in prestito, che nasconde le doppie punte e che funziona anche sui capelli ispidi se si usa un po’ di balsamo. Le chiederei se anche lei ha trovato una scatola da scartare. Potremmo essere amiche, amiche intime, quasi sorelle, se solo si affacciasse. Potremmo parlare del paese da cui veniamo, che forse è lo stesso, o forse no, ma tanto per i padroni di casa è tutto Romania, Ucraina, Russia oppure semplicemente est. Potremmo raccontarci di madri anziane e figli piccoli lasciati laggiù.
Ha spalancato le finestra. Mi pare giovanissima, forse non ha lasciato nessun figlio nell’est, ma non fa niente, potrei raccontarle dei miei e lei, forse, di sua madre. Alzo una mano per farmi notare, la finestra sta ancora vibrando nei miei occhi e i suoi lineamenti si sono sdoppiati, i contorni oscillano in linea verticale.
Mentre aspetto che tutto si fermi vedo la sua felpa beige e una fascia che le tiene su i capelli chiari e mossi, la fronte alta. Finalmente metto a fuoco. Adesso la posso vedere meglio. Lei però non ha risposto al mio saluto, forse non mi ha visto, forse non mi ha guardato. Allora riprovo, voglio che mi veda e che mi parli. Ma, niente, sembra affaccendata a spolverare gli infissi, a togliere la merda dei piccioni dal davanzale. Quello sì che è un lavoro odioso, tutta quella roba asciutta da ammorbidire con saponata calda e poi togliere stando attenti che nulla coli giù. Che qui la gente protesta per il guano sui davanzali di fronte, ma anche per la saponata che gocciola nel cortile. Sbagli sempre.
Vedi, amica del palazzo di fronte, di quante cose potremmo parlare. Ma tu non mi guardi, non mi vedi.
Lei non mi vede, forse come me ha un difetto visivo, oppure ha lo stipendio fisso, non è pagata a ore, e allora la capisco: prima finisce e prima torna a casa, non perde tempo a conversare. E se ha fretta di tornare a casa vuol dire che c’è qualcuno che l’aspetta. Oh, amica, sono felice per te. Guardami solo per un attimo che te lo dico a voce: è una gran fortuna avere qualcuno che ti aspetta. Mi sbraccio di nuovo, mi sporgo un po’ di più e saluto agitando un fazzoletto, come si faceva dalle navi che partivano per lunghi viaggi e per posti lontanissimi. Ma lei continua a lavorare senza neanche alzare lo sguardo.
Allora penso che se mi siedo sul davanzale, forse, ho una speranza. Mentre mi sollevo ho il pensiero dell’oggetto sottratto e della sua restituzione. Ma c’è questa cosa più importante adesso, questa dell’essere vista dalla mia amica, sono sicura che la mia signora capirà.
Mi sporgo, dunque, e mi arriva una voce dal palazzo di fronte. Mi sono issata sulle mani per salire meglio e adesso do le spalle alla mia me. Se quella è la sua voce, sembra allarmata; ma forse è solo il tono alto e robusto di noi donne dell’est. Intanto mi sono seduta sul davanzale, le gambe penzolano nell’aria del salotto pulitissimo. Per un attimo penso alla soddisfazione di aver fatto molto bene il mio lavoro, mentre i bordi del divano vibrano e lentamente prendono il loro posto nel mio campo visivo.
Adesso arrivo, mi verrebbe da rispondere a lei che urla, adesso mi faccio vedere. Ma meglio fare che dire, e basta poco, una minima oscillazione all’indietro.
Il cielo, col nistagmo, è sempre il cielo. Vorrei salutare l’altra me alla finestra, ma sento le braccia pesantissime e non voglio rinunciare a questa sensazione di abbandono. Nessuna vibrazione, mentre guardo l’azzurro che mi sovrasta; nessuna sfocatura, mentre me ne allontano. Che meraviglia e che sorpresa vederci per una volta così chiaro.
Ho letto con molto interesse l’esordio di Gianluigi Bodi. Lo aspettavo e mi ha fatto molto piacere, soprattutto dopo aver apprezzato i suoi racconti pubblicati su varie riviste letterarie e l’antologia Hotel Lavoverde che ha curato per LiberAria Editrice. La raccolta “Un posto difficile da raggiungere”, pubblicata da Arkadia Editore nella collana SideKar, è interessante per diversi motivi. Bodi racconta la vita “piccola” e il suo gusto dolce-amaro. I personaggi sono individui comuni, spesso introversi, che si misurano con i loro sogni, i loro segreti e con le vite degli altri. C’è un male di vivere sottile in ogni storia, la difficoltà di identificarsi, di collocarsi e riconoscersi un ruolo, un’utilità, un senso nel contesto in cui si vive. Sullo sfondo, in ogni storia, si dispiega un mondo ricco di contrasti, convenzioni, incongruenze, ma anche di meraviglie inattese. La città, la casa, il bosco, la fabbrica, l’ufficio, il bar aiutano a contestualizzare le storie e a dare tridimensionalità ai protagonisti. Ce n’è uno, di protagonista, ubiquitario nella raccolta, onnipresente nella vita di tutti i personaggi: è la solitudine. Solo è l’impiegato, sola la moglie del vecchio in bicicletta, solo in vecchio stesso, solo l’operaio, così come il figlio del padre pretenzioso, la neolaureata, la donna anziana, l’architetto. È una solitudine, la loro, profonda e a volte incompresa, spesso invisibile agli altri. Un sentimento (un personaggio, dicevo) offuscato dalle regole sociali, tenuto nascosto per pudore o imbarazzo. Ma se si analizzano i personaggi che Bodi fa vivere fra le pagine della sua raccolta ne individuiamo il ruolo: si tratta quasi sempre di una solitudine protettiva, necessaria a riprendere il filo della propria vita, a trovare soluzioni lontani dal frastuono del mondo. È una casa, uno spazio intimo dedicato al ragionamento, alla cura dei pensieri, un luogo in cui riprendersi ciò che davvero conta, oppure un grande specchio in cui osservarsi e riconoscersi. Non ci sono mappe chiare e predeterminate da seguire per trovare il proprio posto nel mondo, questo dice Bodi con i suoi racconti, non esistono scorciatoie o regole prescritte; al contrario ci sono il libero arbitrio, il caso, l’autodeterminazione, gli errori come monito, il futuro come sogno, la curiosità, l’ambizione, la rivalsa, l’invidia, il rimorso e la solidarietà. Direi l’armamentario sentimentale umano, complesso e dinamico, che fa di ogni relazione, soddisfacente o meno, un’esperienza che lascia le sue tracce, e di ogni esistenza un’impresa unica.
Bodi è un ottimo narratore, la cui scrittura limpida aiuta a orientarsi in certi labirinti. Leggere (e rileggere) questa raccolta è stato svuotare un sacchetto di biglie sul pavimento e seguire con curiosità le direzioni di ognuna, o se preferite, seminare a spaglio una miscellanea di sollecitazioni e attenderne i germogli. Ci vuole tempo, ci vuole solitudine, uno specchio interiore, orecchio per le vibrazioni. Ho apprezzato ogni riga, ogni storia, ogni personaggio, e tuttavia, come sempre mi accade davanti a una raccolta, ho individuato il mio racconto preferito. Quale sia, però, è un segreto fra me e il libro.
Gianluigi Bodi
(Dal sito di Arkadia Editore)
Nato nel 1975, ha vissuto a Cavallino-Treporti (Venezia) fino a che non si è trasferito in provincia di Treviso nel 2009. Lavora all’Università Ca’ Foscari del capoluogo lagunare, nella quale si è anche laureato in Lingue e letterature straniere. Nel 2013 ha fondato il blog letterario “Senzaudio”. Nel 2015 ha vinto il concorso indetto dal festival letterario CartaCarbone con il racconto Perché piango di notte. È stato inoltre finalista nel 2018 e nel 2021 al contest “8×8, si sente la voce”. Da allora ha continuato a scrivere e i suoi racconti sono apparsi su “Il primo amore”, “Pastrengo”, “Altri Animali”, “Narrandom”, “Malgrado le Mosche”, “Rivista Blam!”, “Spaghetti Writers”, “Ammatula”, “Spazinclusi”, “Crack” e su altre riviste letterarie sia digitali sia cartacee. Nel 2020 un suo racconto breve è stato incluso nella raccolta I giorni alla finestra (Il Saggiatore). Ha curato le antologie Teorie e tecniche di indipendenza (VerbaVolant, 2016) e Hotel Lagoverde (LiberAria, 2021). Un suo scritto è stato inserito in Ti racconto una canzone (Arcana, 2022). Collabora con il sito web del Premio Comisso sul quale tiene la rubrica “Venetarium”.
Social Fame di Laura Dalla Ragione e Raffaella Vanzetta è un libro importante, utile, ben scritto. L’ho presentato nel mio studio dopo l’uscita e oggi ne parlo su Quaerere che ringrazio per la cura.
Il Pensiero Scientifico Editore
All’inizio dell’estate, ho letto Social Fame, Adolescenza, social media e disturbi alimentari di Laura Dalla Ragione e Raffaella Vanzetta, pubblicato da Il Pensiero Scientifico Editore. Delle due autrici e curatrici avevo già letto diversi lavori, fra saggi e articoli, soprattutto per interesse professionale. La lettura di questo testo però ha assunto da subito una connotazione particolare e non solo perché sono una nutrizionista. Di saggi sui disturbi della condotta alimentare ne ho letti molti, ma questo mi è sembrato un testo imprescindibile, uno di quei libri da diffondere il più possibile e di cui parlare in ogni contesto educativo. Per questo, i primi di luglio ho invitato nel mio studio colleghi, lettori comuni, genitori, studenti, educatori a confrontarsi sui temi del libro insieme a una delle autrici, Laura Dalla Ragione, che si è collegata da remoto. Mi è parso un tempo speso bene, un modo utile e interessante di affrontare la questione dei disturbi alimentari e dei social media da punti di vista diversi, in certi casi anche molto distanti fra loro, ma allo stesso modo importanti e necessari.
Ho riflettuto molto poi su quel momento e su come questo testo così importante sia in grado di illuminare certi spazi oscuri relativi alla vita e alle ansie dei nostri ragazzi.
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L’accesso dal piccolo terrazzo sul retro è il più sicuro, oltre che il più semplice. La porta finestra è classica, maniglia d’alluminio e serratura facile, di quelle che basta una forcina, ci si fa anche con i guanti di polietilene.
N. lo sa, ha studiato i particolari il giorno prima.
La coppia è uscita presto, come ogni giorno. N. ha aspettato che il condominio fosse di nuovo silenzioso, dopo le colazioni, dopo le uscite frettolose, le lagne dei bambini, i baci asciutti delle coppie. Andate tutti in culo, ha pensato, levatevi dalle palle che ho da fare.
Si è dovuto arrampicare poco, fino al piano rialzato; più che un’arrampicata è stata una passeggiata. Gli scemi stanno così bassi e non hanno neanche una serratura di sicurezza. Con quella, magari a un secondo o terzo piano, si sarebbe divertito di più. Ma adesso è dentro, bisogna sbrigarsi e e tornare giù.
Non c’è l’ansia, questa volta, a dargli quel brivido alla nuca, a metà fra il solletico e il dolore; forse solo una lieve vertigine che si esaurisce non appena N. mette piede nell’appartamento.
Il tavolo della cucina è ancora apparecchiato, due tazze con il fondo del caffè appiccicato, le briciole dei biscotti sulla tovaglia stampigliata male, roba scadente, da negozio cinese. N. storce la bocca. A casa sua, la mattina, c’è sempre una tovaglia pulita, perfettamente stirata; prima di uscire si rimette tutto a posto, sua madre odia trovare la cucina in disordine al rientro la sera. Sua madre odia sentire suo padre urlare e sbattere le porte per la cucina in disordine al rientro la sera.
N. procede verso la zona notte curiosando fra i ripiani dei mobili e gli armadi. Il letto è sfatto. Questi maiali vanno via così al mattino, come se non dovessero mai rientrare, come se la casa fosse un dormitorio. In bagno c’è un accappatoio per terra, un ciuffo di capelli lunghi e scuri a forma di s nel lavabo. N. con l’indice gli dà la forma della sua iniziale e fa una smorfia di disgusto.
Torna in camera da letto. Ha portato una sporta di stoffa, di quelle che sua madre accumula nei cassetti; ne porta a casa almeno una ogni volta che riesce a prendere un treno e andare a una fiera del libro. Al ritorno la svuota subito, strappa gli scontrini perché suo padre non monti su una scenata su quelle spese inutili, la piega e la ripone con le altre. Sono belle, dice, ecologiche, si lavano in lavatrice a freddo. Ecco, pensa N., dopo la lavo in lavatrice e gliela rimetto a posto, che tutta presa com’è dalle camicie di mio padre, manco se ne accorge.
Tiene in una mano la borsa e si concentra sulla cassettiera interna dell’armadio. Un paio di anelli d’oro, niente brillanti, molta bigiotteria. Avranno una cassaforte, da qualche parte, dietro il solito quadro insignificante, ma non gli interessa. Qualche abito firmato, un paio di cravatte Armani, due foulard Gucci, un orologio, ecco, un Garmin che forse vale la pena portare via.
Ha già finito e non si è divertito. Come la volta scorsa, si chiede perché lo ha fatto.
Sbuffa, sfila il cellulare dalla tasca, dà un’occhiata alle notifiche. Si appoggia alla parete vicino alla finestra, ascolta un audio di V., che la sera prima non si è neanche accorta di straparlare, fra una pasticca e una vodka alla pesca. Ha la voce da oltretomba, non si capisce niente, forse si starà chiedendo anche lei perché fa certe cose.
N. rimette il telefono in tasca e con un dito scosta appena la tenda, attirato dal rombo di una moto. È lontana ma non troppo, sta arrivando. Guarda il palazzo di fronte, le finestre sono tutte chiuse. In strada, due passanti vanno di corsa, sguardo in terra, sono già spariti.
La moto si avvicina, N. ne immagina il modello, Yamaha YZF-R1, vediamo se indovina. Sorride, pregusta il momento in cui la vedrà sfrecciare giù in strada, ecco un divertimento. Rombo di tuono gli viene in mente, e Chuck Norris che non c’entra niente, che film di merda. N. sorride, ecco che arriva, rombo Yamaha, quanto è bella. La vede sbucare dall’angolo e avvicinarsi veloce e nervosa. Poi, lo schianto. Poi un silenzio che sembra il posto migliore per depositare le domande.
Perché la vecchia ha attraversato proprio adesso? Da dov’è sbucata? Vedi che succede, nonna, a sbagliare il momento, ti ritrovi con la testa rotta. Mia nonna, invece, è morta nel letto di un ospedale che manco c’ero, e mi è dispiaciuto, ecco. Ho sbagliato il momento, come te. Ce l’hai un nipote, tu, oppure abiti da sola?
N. ha spostato lo sguardo sulla moto che dopo aver fatto un mezzo giro per terra, inclinata sul ginocchio del centauro, si è fermata. L’uomo ha alzato un attimo la visiera del casco, ha fissato la donna immobile sull’asfalto, si è guardato intorno ed è ripartito a gran velocità. Rombo di tuono.
N. lo ha seguito con lo sguardo osservando la ruota posteriore della moto sgusciare un po’ a destra, un po’ a sinistra fino a riprendere l’equilibrio perfetto.
La vecchia è rimasta sull’asfalto. Nessuno ha visto nulla. N. guarda con attenzione la facciata del palazzo di fronte, una finestra dopo l’altra, niente, nessuno.
Scuote la testa. Cazzo, che moto.
Invece, una finestra di fronte, al terzo piano ha un lembo di tenda scostato appena. L. vede la vecchia per terra, la macchia rossa che si allarga sotto la testa, e un’ombra dietro le tende della finestra al piano rialzato. I coniugi F. sono usciti anche stamattina, come al solito, di corsa, salutandosi con la consueta freddezza e la solita espressione annoiata. L. alza le spalle e le lascia ricadere espirando dalle narici dilatate, mentre toglie il grembiule e lo appende alla spalliera di una sedia.
La vecchia è immobile. Non avrà sofferto. L. pensa che di tutte le morti che aveva immaginato per lei, conclude che quella è la migliore.
Si cambia le scarpe, scende nell’atrio ed esce dal retro.
N. si allontana dalla finestra, va verso la cucina. C’è un gran silenzio, solo il rumore ovattato delle sue scarpe di gomma sul pavimento. Fra poco, immagina N., qualcuno urlerà, poi arriverà un’ambulanza, poi la polizia. Ma adesso in questa cucina c’è un gran silenzio; vorrebbe sedersi un attimo, farsi un caffè, dire a qualcuno che non ce la fa più. Invece si dirige rapido verso la porta finestra. Poi, all’improvviso si ferma, torna indietro alla tavola apparecchiata, impila le tazze e le ripone nell’acquaio.
In questi giorni ho letto per la seconda volta il libro di Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, recentemente pubblicato da nottetempo.
L’ho letto due volte perché la rilettura è il tempo della riflessione, dei collegamenti ad altre letture, degli appunti scritti sul margine. Concede peraltro la libertà di andare avanti e tornare indietro, prescindendo dall’ordine in cui il testo è stato scritto, procedendo con l’unica voglia di farsi cambiare da ciò che si legge, di metabolizzarne lentamente ogni pagina, ogni parola. Così, questo testo è diventato, oltre che il mio manuale di resistenza ecologica, anche un esorcismo alla rapidità vertiginosa del tempo e del lavoro finalizzati a produttività e performance.
A questo libro voglio bene per molti motivi, primo fra tutti i temi trattati; e non solo perché sono biologa, ma perché credo che parlare di orti, ambiente, biodiversità e buone pratiche sia urgente e di interesse assolutamente collettivo.
C’è anche il fatto che Barbara Bernardini scrive benissimo e che ogni concetto affrontato nel suo libro risulta chiaro e invoglia all’approfondimento.
Ma voglio bene a questo libro anche per altre ragioni. Di seguito proverò a parlarvene meglio che posso.