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#secondapelle Racconti Scrittura

Rombo di tuono

L’accesso dal piccolo terrazzo sul retro è il più sicuro, oltre che il più semplice. La porta finestra è classica, maniglia d’alluminio e serratura facile, di quelle che basta una forcina, ci si fa anche con i guanti di polietilene.
N. lo sa, ha studiato i particolari il giorno prima.
La coppia è uscita presto, come ogni giorno. N. ha aspettato che il condominio fosse di nuovo silenzioso, dopo le colazioni, dopo le uscite frettolose, le lagne dei bambini, i baci asciutti delle coppie. Andate tutti in culo, ha pensato, levatevi dalle palle che ho da fare.
Si è dovuto arrampicare poco, fino al piano rialzato; più che un’arrampicata è stata una passeggiata. Gli scemi stanno così bassi e non hanno neanche una serratura di sicurezza. Con quella, magari a un secondo o terzo piano, si sarebbe divertito di più. Ma adesso è dentro, bisogna sbrigarsi e e tornare giù.

Non c’è l’ansia, questa volta, a dargli quel brivido alla nuca, a metà fra il solletico e il dolore; forse solo una lieve vertigine che si esaurisce non appena N. mette piede nell’appartamento.
Il tavolo della cucina è ancora apparecchiato, due tazze con il fondo del caffè appiccicato, le briciole dei biscotti sulla tovaglia stampigliata male, roba scadente, da negozio cinese. N. storce la bocca. A casa sua, la mattina, c’è sempre una tovaglia pulita, perfettamente stirata; prima di uscire si rimette tutto a posto, sua madre odia trovare la cucina in disordine al rientro la sera. Sua madre odia sentire suo padre urlare e sbattere le porte per la cucina in disordine al rientro la sera.
N. procede verso la zona notte curiosando fra i ripiani dei mobili e gli armadi. Il letto è sfatto. Questi maiali vanno via così al mattino, come se non dovessero mai rientrare, come se la casa fosse un dormitorio. In bagno c’è un accappatoio per terra, un ciuffo di capelli lunghi e scuri a forma di s nel lavabo. N. con l’indice gli dà la forma della sua iniziale e fa una smorfia di disgusto.
Torna in camera da letto. Ha portato una sporta di stoffa, di quelle che sua madre accumula nei cassetti; ne porta a casa almeno una ogni volta che riesce a prendere un treno e andare a una fiera del libro. Al ritorno la svuota subito, strappa gli scontrini perché suo padre non monti su una scenata su quelle spese inutili, la piega e la ripone con le altre. Sono belle, dice, ecologiche, si lavano in lavatrice a freddo. Ecco, pensa N., dopo la lavo in lavatrice e gliela rimetto a posto, che tutta presa com’è dalle camicie di mio padre, manco se ne accorge.
Tiene in una mano la borsa e si concentra sulla cassettiera interna dell’armadio. Un paio di anelli d’oro, niente brillanti, molta bigiotteria. Avranno una cassaforte, da qualche parte, dietro il solito quadro insignificante, ma non gli interessa. Qualche abito firmato, un paio di cravatte Armani, due foulard Gucci, un orologio, ecco, un Garmin che forse vale la pena portare via.

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Ha già finito e non si è divertito. Come la volta scorsa, si chiede perché lo ha fatto.
Sbuffa, sfila il cellulare dalla tasca, dà un’occhiata alle notifiche. Si appoggia alla parete vicino alla finestra, ascolta un audio di V., che la sera prima non si è neanche accorta di straparlare, fra una pasticca e una vodka alla pesca. Ha la voce da oltretomba, non si capisce niente, forse si starà chiedendo anche lei perché fa certe cose.
N. rimette il telefono in tasca e con un dito scosta appena la tenda, attirato dal rombo di una moto. È lontana ma non troppo, sta arrivando. Guarda il palazzo di fronte, le finestre sono tutte chiuse. In strada, due passanti vanno di corsa, sguardo in terra, sono già spariti.
La moto si avvicina, N. ne immagina il modello, Yamaha YZF-R1, vediamo se indovina. Sorride, pregusta il momento in cui la vedrà sfrecciare giù in strada, ecco un divertimento. Rombo di tuono gli viene in mente, e Chuck Norris che non c’entra niente, che film di merda. N. sorride, ecco che arriva, rombo Yamaha, quanto è bella. La vede sbucare dall’angolo e avvicinarsi veloce e nervosa. Poi, lo schianto. Poi un silenzio che sembra il posto migliore per depositare le domande.

Perché la vecchia ha attraversato proprio adesso? Da dov’è sbucata? Vedi che succede, nonna, a sbagliare il momento, ti ritrovi con la testa rotta. Mia nonna, invece, è morta nel letto di un ospedale che manco c’ero, e mi è dispiaciuto, ecco. Ho sbagliato il momento, come te. Ce l’hai un nipote, tu, oppure abiti da sola?
N. ha spostato lo sguardo sulla moto che dopo aver fatto un mezzo giro per terra, inclinata sul ginocchio del centauro, si è fermata. L’uomo ha alzato un attimo la visiera del casco, ha fissato la donna immobile sull’asfalto, si è guardato intorno ed è ripartito a gran velocità. Rombo di tuono.
N. lo ha seguito con lo sguardo osservando la ruota posteriore della moto sgusciare un po’ a destra, un po’ a sinistra fino a riprendere l’equilibrio perfetto.
La vecchia è rimasta sull’asfalto. Nessuno ha visto nulla. N. guarda con attenzione la facciata del palazzo di fronte, una finestra dopo l’altra, niente, nessuno.
Scuote la testa. Cazzo, che moto.

Invece, una finestra di fronte, al terzo piano ha un lembo di tenda scostato appena. L. vede la vecchia per terra, la macchia rossa che si allarga sotto la testa, e un’ombra dietro le tende della finestra al piano rialzato. I coniugi F. sono usciti anche stamattina, come al solito, di corsa, salutandosi con la consueta freddezza e la solita espressione annoiata. L. alza le spalle e le lascia ricadere espirando dalle narici dilatate, mentre toglie il grembiule e lo appende alla spalliera di una sedia.
La vecchia è immobile. Non avrà sofferto. L. pensa che di tutte le morti che aveva immaginato per lei, conclude che quella è la migliore.
Si cambia le scarpe, scende nell’atrio ed esce dal retro.

N. si allontana dalla finestra, va verso la cucina. C’è un gran silenzio, solo il rumore ovattato delle sue scarpe di gomma sul pavimento. Fra poco, immagina N., qualcuno urlerà, poi arriverà un’ambulanza, poi la polizia. Ma adesso in questa cucina c’è un gran silenzio; vorrebbe sedersi un attimo, farsi un caffè, dire a qualcuno che non ce la fa più. Invece si dirige rapido verso la porta finestra. Poi, all’improvviso si ferma, torna indietro alla tavola apparecchiata, impila le tazze e le ripone nell’acquaio.

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malattia Racconti Scrittura

La scena perfetta – Racconto su Enne2 Rivista

D’inverno, un braccio ingessato ha i suoi vantaggi. Ad esempio, il braccio resta al caldo.

Arturo, detto Turo, si aggira di notte nei pressi della stazione. Cosa ci faccia lì, noi non lo sappiamo. Ma lo vediamo camminare con quel passo dinoccolato lungo il binario numero uno e ogni tanto fermarsi a guardare un tabellone, una pubblicità, imprecare – lo sentiamo – davanti al distributore di acqua e tramezzini.

Turo è destro, si vede dai movimenti davanti al distributore di acqua e tramezzini, nella zona della tastiera e del raccogli-monete. Non trova niente, nessuno ha lasciato resti, nessuno ha dimenticato tramezzini. Si sposta ancora più in là, lungo il binario, rimesta dentro un cestino dei rifiuti, procede senza nessun bottino fino a una panchina di cemento, sfregando la mano destra sul pantalone per scaldarla.

La panchina è occupata. Qualcuno si è sdraiato su dei cartoni e si è coperto con una trapunta logora.

Turo fa il giro della panchina. Allunga la mano destra e scuote la persona sdraiata. Quello salta in aria. Fa proprio un balzo dal cartone, con tutta la coperta sulle spalle, gli occhi sgranati che brillano nella luce gialla del lampione.

Continua a leggere: sul numero speciale “Tutti pazzi” di Enne2 eRivista letteraria

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#secondapelle #spiragli Scrittura

Il prodigio. Riflessioni e spiragli

il film

Il prodigio, diretto da Sebastián Lelio.
Siamo nel 1862. Lib Wright (Florence Pugh) è un’infermiera che ha fatto esperienza negli ospedali da campo della guerra in Crimea. La donna, che sta ancora elaborando il dolore per la perdita di un figlio, viene assunta da una particolare “commissione” in una piccola comunità irlandese, povera e chiusa al progresso, al fine di osservare un “prodigio”: Anna, una bambina di undici anni, ha smesso di mangiare da quattro mesi e nonostante il digiuno prolungato, è in buona salute, in quanto, tutti sostengono, tenuta in vita dal nutrimento divino. La speciale commissione composta dal prete, dal medico condotto e da alcuni rappresentanti della comunità, ingaggia l’infermiera e una suora come osservatrici che si daranno il cambio notte e giorno al fine di scoprire se dietro il prodigio ci sia un’altra spiegazione. Anna viene considerata dalla comunità e dalla famiglia una santa, la prima santa del paese. Lib, in un primo momento è sorpresa e sconvolta dalla buona salute della bambina, dopo qualche tempo si rende conto che dietro l’apparente miracolo c’è un comportamento materno e familiare disfunzionale. La bambina, infatti, viene nutrita in realtà attraverso i baci della madre che, nel gesto affettuoso, la imbocca con il cibo masticato che tutti in casa chiamano “manna di Dio”.

letture

Dopo qualche giorno dalla visione del film, in modo pressoché automatico, ho ripreso un saggio che negli anni di formazione mi ha illuminato la strada e a cui sono ritornata spesso per cercare nuovi significati, nuove illuminazioni. Si tratta di un saggio di Rudolph Bell, La santa anoressia, digiuno e misticismo dal medioevo a oggi. I temi del saggio sono vicini a quelli del film e le analogie fra il percorso di santità di alcune sante ascetiche del passato e le manifestazioni dell’anoressia nervosa di Anna, sorprendenti.
Oltre al saggio di Bell ha ritrovato posto sulla scrivania un saggio più recente, anche questo consultato e riletto molte volte ma che mi riserva continue rivelazioni: parlo di Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, l’arte del Kintsugi, curato da Elena Riva, che fornisce interessanti chiavi di lettura dei disturbi restrittivi. Nella mia mente, come spesso accade, si sono riaperti dei cerchi che avevo provvisoriamente chiuso, spiragli che mi hanno portato a rileggere questi due testi e ad annotare nuove impressioni, spiragli direi, nate dalla visione del film.

spiragli

Benvenuta Bojani (Cividale del Friuli, 1255) era la più piccola di sette sorelle, vezzeggiata dai suoi genitori che non scoraggiarono la sua precoce propensione alla vita ascetica. La incoraggiò soprattutto il padre spingendola a entrare fra le terziarie domenicane, note per il rigore religioso e la consuetudine alle mortificazioni corporali. Benvenuta trascorse cinque anni, dai sette ai dodici, immersa per molte ore ogni giorno nelle preghiere che recitava nel giardino di casa: 1700 avemarie e 700 paternostri ogni giorno. Dopo anni di mortificazioni corporali, a ventuno anni si ammalò gravemente: il suo fisico era così debole da non riuscire a stare in piedi senza l’aiuto degli altri. Praticava il digiuno e, se veniva forzata a mangiare, rimetteva ogni cosa entro poco tempo. “L’unico nutrimento le veniva da un angelo che ogni giorno a mezzogiorno le portava un cibo celestiale in un piccolo vaso scintillante e la cibava con le sue dita” (cit. La santa anoressia). Morto il padre, il suo angelo del nutrimento, Benvenuta guarì completamente.
La storia della piccola Anna ricorda molto quella di Benvenuta Bojani. Anche ne Il prodigio c’è un nutrimento divino, la manna di Dio, grazie al quale la bambina sopravvive. In questo caso il cibo, proprio come avviene per il latte materno, attraverso il corpo della nutrice passa alla bambina in una forma predigerita e non visibile agli altri. E’ il miracolo ancestrale: il corpo della madre è un tabernacolo, unica fonte di vita e salute della figlia nel gesto intimissimo e segreto dell’atto di nutrire per tenere in vita, simile a quello intrauterino.
In entrambi i casi, per Benvenuta e per Anna, interviene una dinamica che emerge molto spesso nei casi di anoressia, ovvero il tentativo della figlia di “sanare” una ferita di un genitore o di entrambi, di ovviare cioè a una dolorosa delusione, una ferita, un trauma, un rimpianto. La figlia perfetta mette a posto le cose, compensa i disequilibri, ovvia alle umane imperfezioni e agli umani inciampi attraverso l’ascesi, la santità, il controllo e la mortificazione del corpo. Chi, meglio di un figlio (una figlia), un essere puro, innocente e vicinissimo a Dio, può intercedere per i peccati dei genitori?
Il confronto fra le due ascetiche innesca ulteriori riflessioni sulle relazioni padre-figlia e madre-figlia. Sappiamo che nelle famiglie edipiche tradizionali, mentre al figlio maschio spettava il compito di garantire il benessere economico e il prestigio sociale, la femmina era relegata in aree di minore rilievo. Tuttavia, qualora la figura maschile fosse risultata inadempiente, alla femmina, al corpo della femmina, venivano affidate aspirazioni e ruoli che incarnavano aspettative insostenibili. In questo processo di affidamento il cibo e il corpo diventavano la stessa cosa (il corpo, in particolare, si faceva ponte fra l’esterno e l’interno, fra avvenimenti e sentimenti) e si riempivano di significati profondamente simbolici: una dinamica che oggi sappiamo possibile in ogni periodo storico, con caratteristiche peculiari di ogni epoca. Elena Riva sottolinea tale fenomeno in una nota del saggio precedentemente citato: nelle biografie di Emili Bronte, Emily Dickinson, Simone Weil e Sylvia Plath il fratello risulta investito di aspettative di successo sociale e professionale, mentre la figlia femmina è relegata a ruoli reputati minori, come l’accudimento, la sorveglianza sui figli, l’organizzazione dei banchetti; il suo corpo protetto, fasciato da busti e corpetti.
“Emily Dickinson, costretta dal padre a ritirarsi dagli studi ‘per motivi di salute’, dalla stanza in cui si rifugia a scrivere fino alla morte, scrive: ‘a me chiedevi torte, a lui pagine scritte’ ” (cit. Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, nota 10, pag. 247).
Nel caso di Benvenuta è il rapporto con il padre il fulcro della “santa anoressia”: la ragazza è la più piccola di sette sorelle; il figlio maschio non c’è, ma Benvenuta riempie il vuoto, si fa asceta, produce miracoli, mette in atto prodigi di cui il padre (la madre muore presto) può andare fiero. Nel caso di Anna il fratello commette un grave peccato, l’incesto, ferendo la famiglia nel tessuto più intimo e creando una voragine in cui la bambina prende posto, si sacrifica e viene sacrificata per salvare la famiglia dal baratro del peccato inconfessabile perpetrato dal figlio maschio. In questa storia vi è un fattore addizionale che forse la rende più incisiva e morbosa: il ruolo della madre e del suo bacio-nutrimento. Il corpo di Anna, a differenza di quello di Benvenuta, non è emaciato, non mostra segni di deperimento fino al momento in cui l’infermiera decide di isolarla dalla famiglia, non permettendone più il contatto fisico. La madre-uccello viene allontanata suo malgrado dal nido, la manna di Dio non passa più dal corpo materno a quello della bambina e nessuno, né la madre né gli altri componenti del nucleo familiari, sono pronti a confessare il segreto: condannano Anna alla morte per inedia. La stessa bambina sostiene la sua condanna, ormai cristallizzata nel ruolo che la famiglia le ha attribuito dopo l’incesto.

immagini e immaginazioni

Il prodigio offre anche l’occasione di riflettere sulle immagini e le impressioni che ne derivano. Il registra ci mostra un paesaggio cupo, con colori scuri che vanno dal marrone al grigio al nero, fra i quali spiccano l’azzurro con cui invece si veste l’infermiera Lib Wright e il beige degli abiti di Anna. Il contrasto evoca quello fra la scienza e l’oscurantismo religioso, la cultura e l’ignoranza che rende ottusi e diffidenti. Un contrasto senza tempo, se ci pensiamo, ma che trova nelle immagini di questo film una chiave di lettura universale.


C’è anche qualcosa di profondamente dissonante fra l’ascesi della bambina e gli elementi materici come la pioggia, il fango, la densità di una minestra, il legno di cui è fatta la mansarda che ospita Anna e l’infermiera. L’agonia di Anna, con il sudore della febbre, il collasso del corpo, l’ottundimento dei sensi fa da contraltare alle preghiere, la volontà di dissolversi, farsi spirito, volatilizzarsi nella nebbia. Fisico e umano è anche il dolore di Lib che, mentre si sforza di comprendere con le sue competenze ciò che accade alla ragazza, fa i conti con il suo lutto, con la condizione di madre orfana di suo figlio e con il limite fisico di tolleranza del dolore forse più insopportabile: Lib riesce a sopravvivere alla propria sofferenza attraverso momenti di totale estraniamento, forse con l’aiuto di un farmaco o una droga che si autosomministra pungendosi un polpastrello per poi perdere temporaneamente i sensi. Il corpo, di nuovo, è il ponte fra avvenimenti e sentimenti.
Infine (ma la parola fine riguardo a questo film e a ciò che evoca sembra davvero inappropriata), c’è il fuoco a simulare la morte della bambina e a sancire la fine di ogni possibile progetto di redenzione e santificazione. E cosa fa il fuoco da sempre? Incenerisce e fertilizza, dissolve e trasforma. Nell’incendio della casa si verifica la trasmutazione, un rituale di iniziazione: del peccato in salvezza, della morte in rinascita, dalla malattia alla salute, dal sacrificio estremo al diritto alla vita e alla felicità.
Anna, tratta in salvo dall’infermiera, compie un secondo (vero) prodigio: ricomincia ad alimentarsi e a vivere. Le ultime scene del film ce la restituiscono infatti in un mondo colorato, bambina tenuta per mano dagli adulti, figlia salvata e accudita, umana fra gli umani.

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#risvegli Scrittura

Cose corruttibili

Stamani sono uscita presto. Mi sono svegliata con un’energia insolita e ho fatto un giro largo in bici. Il tempo promette pioggia e spero con tutto il cuore che pioggia sia.
Leggevo Levi, prima, a casa, qualche pagina de Il sistema periodico che ho a portata di mano da molti mesi. Finisco e ricomincio a leggere senza soluzione di continuità; è magico, ogni volta sembra un libro nuovo. Il capitolo Cerio, dunque, lantanide, elemento delle terre rare. Leggevo di un barattolo senza etichetta, cosa insolita in un laboratorio chimico tedesco; della ricerca di una confezione adeguata al trasporto clandestino di un materiale barattabile. C’è una pagina meravigliosa sulla corruttibilità degli imballaggi naturali: la membrana cellulare, il guscio dell’uovo, la buccia delle arance. Non esisteva il polietilene, scrive Levi, flessibile, leggero e incorruttibile, così incorruttibile che “il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono”.
Leggevo di un certo tipo di fame che rende bestiali e corruttibili, insieme a speranza e disperazione alternantesi a un ritmo “che avrebbe stroncato in un’ora qualsiasi individuo normale. Noi non eravamo normali perché avevamo fame”. E a causa di quella fame Primo Levi dovette imparare a rubare. Non il pane degli altri, scrive, ma merce che poteva scambiare con del pane per sé.
Continuo a pensare a questa frase, non il pane degli altri, e al senso del limite, prezioso più del cerio, molto più del polietilene.

Il cielo si è rabbuiato un altro po’. Ho messo la bici al riparo, gesto superfluo: una bella acquata, confesso, al ritorno la prenderei volentieri.

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#secondapelle #testolibero morte, paure Racconti Scrittura

Storie di cibo e sentimento

Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose

Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.

Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.


Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.


Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.


Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.

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#secondapelle Scrittura

Un bosco, un lago, un hotel – Recensione- Hotel Lagoverde

AA. VV., Hotel Lagoverde
LiberAria Editrice, 2021

Mi capita spesso di immaginare un luogo in una dimensione parallela alla realtà in cui fare e dire cose che qui, nel mio oggi, non trovano né spazio né tempo. Un luogo-non luogo, in un tempo-non tempo in cui sperimentare un’altra vita, un altro lavoro, un’altra me stessa. Mi capita di figurarmi questo posto come un bosco in cui mi addentro e mi perdo, imboccando percorsi inesistenti sulle mappe, come un Pollicino scientemente sprovvisto di briciole e sassi con cui segnare la strada del ritorno.
Così, presa dalla curiosità mi sono addentrata anche questa volta e, cammina cammina, ecco un bosco, un lago e un hotel.

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#secondapelle #testolibero insonnia paura Scrittura

Con i piedi insanguinati

In uno dei miei dormiveglia notturni mi sono raccontata alcune storie che sapevo già. A volte ripassare serve. Per esempio a cambiare il finale. A immaginarie scenari diversi, alternativi. C’è sempre una porta che non abbiamo visto, una stanza che non abbiamo ancora abitato, un gioco con cui non abbiamo mai giocato. Vecchie foto che ritraggono, dietro noi da piccoli, parenti sconosciuti, amici di famiglia di cui non abbiamo mai sentito parlare.

Quindi, dicevo, ero in dormiveglia e mi sono raccontata delle storie. La storia di due etichette: “cose da maschi” e “cose da femmine”. Giocare al flipper era da maschi, etichetta azzurra; con le bambole da femmine, al mercato, pure, da femmine, etichetta rosa. Alla mamma e al papà, sei maschio fai il papà, sei femmina fai la mamma. Al dottore, maschio, la femmina era l’infermiera o la paziente. Ai cowboy non ci giocavo mai. Semmai, in casi estremi, facevo il cavallo o la prigioniera Sioux. I soldatini e le macchinine erano da maschi e quindi ringraziavo mille volte se mio fratello mi ci faceva giocare quando restava a corto di amici.
Ho ripassato poi quell’altra storia, quella della bambola appena ricevuta in regalo che ritrovai con i capelli tagliuzzati da un serial killer presente alla festa, e ho cambiato la fine.
Il dormiveglia talvolta è magico.
Finale nuovo. Alla festa del mio ottavo compleanno nessuno ha regalato bambole, orecchini, braccialetti e calzettoni rosa: non ricordo cosa hanno portato gli invitati alla mia finta festa. Ma di sicuro abbiamo fatto mille giochi di società, poi, nascondino per casa. Dopo la torta ci siamo seduti a raccontare storie di fantasmi. E tutti, bambine e bambini, ne abbiamo avuto paura.

Di un’altra storia nel dormiveglia ho cambiato il finale. Una giovane donna sta lavorando per una tv, ha un microfono in mano, fa la sintesi di un evento sportivo. Un uomo le passa accanto e le palpeggia il sedere. Non la conosce, non c’è alcuna intimità, non le ha chiesto il permesso, non si è fermato a scusarsi. Dallo studio il collega della donna ha minimizzato e continuato come se niente fosse. Invece, no.
Dormiveglia magico.
La parte nuova della storia: il collega dallo studio interrompe il programma e dichiara che è successa una cosa grave e spiacevole, che il collegamento finisce lì, che la tv e i suoi dipendenti sono solidali con la giovane collega, che qualcuno dallo studio sta già chiamando la polizia per segnalare l’accaduto, che queste cose non devono più accadere.

Poi credo di essermi addormentata e aver sognato altre storie. Fatte e finite. Un sacco di etichette rosa e azzurro dal mio precedente dormiveglia non so come sono finite qui.
Ci sono due sorellastre a cui viene chiesto di calzare una piccola scarpa di cristallo per dimostrarsi degne di sposare un principe. Una ha l’alluce troppo grosso. Tagliati il dito, dice la madre. Lei si taglia il dito e calza la scarpa. Il sangue fuoriesce a fiotti ed è ben visibile a tutti. Non è degna. Allora tocca alla sorella che però ha il calcagno troppo sporgente. Tagliati un pezzo di calcagno, dice la madre. Lei obbedisce e calza la scarpetta. Ma nemmeno lei risulta degna dell’uomo da sposare.

Appena sveglia voglio cercare un nuovo dormiveglia, la porta che mi è sfuggita, e cambiare questo finale, mi dico nel sonno. Anzi, lo racconto all’uomo che tiene in mano la scarpetta di cristallo. Lui mi guarda basito, poi ritrova la voce e mi apostrofa: ce l’abbiamo già il finale, sappiamo già chi sposerà il principe e tu non puoi farci niente, non puoi salvare nessuno. Le vogliamo belle, a palazzo, umili e obbedienti. Rassegnati e continua pure a dormire. Credo anche che mi abbia chiamata “povera illusa” ma non ci giurerei, stavo per svegliarmi, mi ero già allontanata.

Mi sono svegliata e non sono riuscita più a dormire, né a ritrovare la porta che cercavo, un altro dormiveglia. La storia è rimasta quella, fatta e finita, con l’uomo saccente che regge la scarpetta.
Sono rimasta la stessa anch’io, dopo tutto, sfatta e sfinita.
per un bel pezzo, immobile e impotente sotto le coperte, a fare i conti con le mie porte chiuse e i miei piedi insanguinati.

… vide il sangue che sgorgava sdalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze bianche*.

*J e W. Grimm, Fiabe. Einaudi. Traduzione di C. Bovero, prefazione di G. Cocchiara

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#secondapelle Racconti Scrittura

Valzer lento

A una certa età i figli vanno per la loro strada. Paride lo ha sempre saputo. Tutti i genitori lo sanno.
E’ successo nel giro di un paio d’anni. Il ragazzo ha trovato lavoro in Francia, la ragazza, invece, una compagna in un’altra città. A Genova. Che da Pisa sono sì e no due ore di macchina. Ma lei è tornata di rado. Come darle torto con una madre come Maddalena. Contro le lesbiche Paride non ha proprio niente, sua moglie invece…
Comunque, se ne sono andati tutti, anche Maddalena, sei mesi fa, un cancro all’utero se l’è portata via.
All’inizio i figli gli hanno imposto una badante. Sonia. Cristo santissimo, Sonia la bulgara che faceva la frittata con la panna e la scorta di detersivo in polvere. Pochi mesi. Solo tre e poi anche Sonia se n’è andata per raggiungere sua figlia in Germania. Paride è stato subito chiaro: basta badanti, basta estranei, basta frittate con la panna e scorte di detersivo in polvere. E difatti è rimasto solo. Solo e contento. Ha provato un certo sollievo nel realizzare che da quel momento nessuno sarebbe arrivato a questionare sul caffellatte per cena, sul volume della radio troppo alto, le sigarette fumate alla finestra, le tute sgualcite e lise, la poca voglia di uscire.

Ora, c’è da dire che proprio solo non è. Nell’appartamento accanto abita la vedova Pochini, la Francesca, bella femmina prosperosa, con cui Paride, ad avere dieci anni di meno e con tutto il rispetto per la buonanima di Maddalena, commetterebbe volentieri qualche peccato.
Francesca non ha figli, ha due fratelli, uno abita a Lucca e si fa gli affari suoi, l’altro nessuno sa che fine abbia fatto.
Il Pochini, cardiopatico, se n’è volato via l’anno scorso durante la notte e nessuno nel palazzo si è accorto di niente fino a quando il cognato lucchese non ha affisso un piccolo annuncio mortuario accanto alle cassette della posta.

Ma quanto è stato lusinghiero per entrambi, l’abbandono.
Paride e Francesca, ognuno a casa sua, hanno cominciato a dormire fino a tardi, a vestirsi se e come vogliono. In più, da qualche tempo, ogni sera lui raggiunge lei per stare in compagnia. Su cosa facciano fino a notte alta possiamo azzardare molte ipotesi. Di certo non si annoiano, visto che Paride non rientra mai prima dell’alba.
Questa storia va avanti da poco più di un mese. I figli di Paride sembrano essersi dimenticati di lui, che di questo ringrazia il cielo ogni giorno. Fatto sta che nel palazzo, per lo più abitato da anziani malandati e badanti nordeuropee, gli unici a restare svegli fino a tardi sono soltanto i due vedovi dirimpettai, Paride e Francesca. Ormai sono così in confidenza che non hanno neanche bisogno di fissare un orario, né di suonare il campanello. Nulla li limita, né porte, né pareti. Niente convenevoli, niente smancerie. Paride si sente sempre a casa, va e viene dall’appartamento accanto con inconsueta leggerezza, un passo giovanile, un piglio spensierato. Francesca lo accoglie come uno di casa. Mettono insieme certi ricordi di quando da bambini facevano il bagno in Arno. Ci andavo con la mi’ mamma, dice lei; io con la mi’ nonna, dice lui, che però non mi lasciava anda’ nell’acqua e mi son sempre chiesto cosa mi ci portasse a fare. E di certi giochi, di certi quartieri, di certi ponti bombardati e poi ricostruiti.
Gli altri inquilini del palazzo ogni tanto sentono un rumore, della musica, una porta che sbatte, il fruscio di una tenda, una sedia spostata. Ma i vecchi palazzi, si sa, scricchiolano, si assestano. A volte sembrano cose che non sono.

Due giorni fa a casa di Paride qualcuno è entrato con le chiavi. Lui è andato a rintanarsi nello stanzino dei detersivi, si è seduto sui fustini del dixan e ha aspettato che gli estranei andassero via. Erano due, hanno fatto un rapido giro della casa, parlato di stime e costi e se ne sono andati. La sera Paride lo ha raccontato a Francesca che ha riso pensando alla scena di lui seduto sopra i detersivi. Lui per gioco l’ha rincorsa per le stanze, poi hanno immaginato cosa accadrà. Arriverà un camion zeppo di mobili, magari dei bambini rumorosi e insonni. Qualcuno riempirà lo stanzino di carta igienica e rotoloni presi a sconto, barattoli di pelati, confezioni di pastina da minestra e pellicola per alimenti. Ci sarà una sveglia alle sette del mattino e il bagno sempre occupato, le liti per chi porta giù la spazzatura, il tintinnio di chiavi all’ingresso. Poi gli anni passeranno, i bambini diventeranno uomini e lasceranno il nido. Gli adulti invecchieranno con il colesterolo alto e attenderanno il momento dell’abbandono come di una festa.
Paride e Francesca non si crucciano, sanno già come andrà a finire. Ballano un valzer lento senza fare troppo rumore.

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#risvegli #secondapelle insonnia Racconti Scrittura

Territorio di nessuno

Mi sveglio ogni notte e ho paura. Anzi, ho molte paure diverse che dapprima arrivano in sequenza ordinata e sotto forma di dolori che posso riconoscere. Il rammarico, la morte, le colpe. E poi si accumulano, si accartocciano, si sovrappongono nei miei risvegli, come agli angoli di un vicolo. Si tramutano in animali notturni dentro un tronco cavo.

Mi sveglio con le mani intorpidite e uno scricchiolio alle vertebre del collo. Mi spiego ogni cosa in modo razionale. Sindrome del tunnel carpale. Artrosi dei processi cervicali. Poi divago. Procedo all’indietro. Scendo da un albero in cerca di cibo. Costringo la mia colonna alla postura eretta. Mentre nel letto accomodo i cuscini sotto il collo, mi dico che sto pagando il gesto sconsiderato dei miei progenitori: affidare la presunzione del bipedismo a una fila di piccole ossa irregolari e cave.

Avrei voglia di alzarmi ma tergiverso, per certi fantasmi che sento muovere nelle stanze, nei corridoi, mentre attraversano pareti e porte chiuse. Niente di male, penso. Ogni casa è abitata da presenze pregresse. Chissà chi c’era qui prima di me, chi è morto in questa camera che ho arredato con colori chiari e tende leggere. E prima ancora che costruissero il palazzo, che asfaltassero la strada, che le dessero il nome di un pittore sconosciuto. Chissà chi si è svegliato qui, nel cuore della notte, in preda alle sue paure.

Rientro in un dormiveglia inquieto, un posto peggiore della veglia. Un luogo saccheggiato, in cui la realtà entra senza chiedere permesso e porta via ogni tentativo di ristoro, la speranza di un sogno. Abbandona i suoi rifiuti in questo territorio di nessuno e ogni notte non faccio che ripulire, rassettare. È il dormiveglia, mi dico, lavoro inutile. Ma ci ricasco di continuo. In questo luogo dell’eterno caos si accatastano le cose che ancora devo fare, quelle che ho lasciato a metà, doveri che ho sottovalutato. E mi sento invadere dalle colpe. Da qualche parte ho letto di donne non più giovani e non ancora anziane che in certe tribù sono considerate depositarie di saggezza, guida luminosa per le altre. Risparmiano il sangue e le energie per svolgere al meglio questo compito. Dalla mia età, questo che ci si aspetta; non è più tempo di paure o sconsideratezze. Ma come si fa ad essere sagge senza il riposo della notte?

Sono di nuovo sveglia con il suono di questa domanda nelle orecchie. Meglio pensare ai fantasmi che alla propria manchevolezza.

Mi metto a leggere da un lettore digitale. Una lettura silenziosa, senza il rumore della carta. Leggo di bambini abbandonati, di favole crudeli. Quanto edulcoriamo quelle che raccontiamo ai nostri figli. Poi salto interi capitoli, cambio addirittura testo, vado a cercare un saggio sui disturbi del sonno che ho letto un anno fa. Ritrovo la storia di un uomo affetto da una grave parassonnìa che ogni notte aggredisce fisicamente sua moglie.
Anche il sonno è territorio di nessuno, vi accadono cose terribili, nessuno che controlli, nulla che argini e contenga. Resto un attimo a riflettere su quest’ultimo pensiero. Il sonno, luogo impervio. Ma la sua deprivazione non è forse causa e sintomo di follia?

Cambio posizione, mi giro sul fianco sinistro, quello in cui gli organi addominali riposano meglio. Sento il fruscio di una vestaglia lungo il corridoio. Passi piccoli e svelti di bambini. Una palla di gomma che morbida rimbalza, risate sommesse e il fumo soffiato nel bel mezzo di una frase. E non so se sto sognando o solo ricordando, mentre ancora muovo le dita, ché se la palla arriva fino a qui l’afferro. Posso giocare anch’io? Forse se mi stanco un po’, dopo riposo. Sorrido.
Ed è l’alba.

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#risvegli #secondapelle paura Racconti Scrittura

Case di bambini

Una casa con un balcone che girava attorno alle stanze. Noi bambini, come sulla giostra, a cavallo delle scope, sembravamo streghe e stregoni. Mio fratello cadde e si fece male. Il sangue sulle piastrelle svelò l’incantesimo, un gioco troppo frenetico da fare su un balcone. Si alzò subito, rise della sua ferita, come i soldati reduci da una battaglia vinta. Io che di magie non mi sono mai occupata, vedendo il sangue piansi e chiamai aiuto. Non è niente, disse mia madre, prendo i cerotti. Eppure restai sgomenta e preoccupata per giorni. Ero già perduta dietro certi piccoli dolori che non passano mai. Ancora torno alle piccole ferite dei bambini, alla casa piena di voci argentine, a incidenti e cerotti rimasti laggiù. Da quelle stanze arriva di continuo l’eco infinita che sa di litigi e canzoncine. E mi pare di essere rimasta da sola ad ascoltare.

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