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L’orto come modo di essere, vedere e vivere – Dall’orto al mondo, di Barbara Bernardini

In questi giorni ho letto per la seconda volta il libro di Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, recentemente pubblicato da nottetempo.

L’ho letto due volte perché la rilettura è il tempo della riflessione, dei collegamenti ad altre letture, degli appunti scritti sul margine. Concede peraltro la libertà di andare avanti e tornare indietro, prescindendo dall’ordine in cui il testo è stato scritto, procedendo con l’unica voglia di farsi cambiare da ciò che si legge, di metabolizzarne lentamente ogni pagina, ogni parola. Così, questo testo è diventato, oltre che il mio manuale di resistenza ecologica, anche un esorcismo alla rapidità vertiginosa del tempo e del lavoro finalizzati a produttività e performance.

A questo libro voglio bene per molti motivi, primo fra tutti i temi trattati; e non solo perché sono biologa, ma perché credo che parlare di orti, ambiente, biodiversità e buone pratiche sia urgente e di interesse assolutamente collettivo.

C’è anche il fatto che Barbara Bernardini scrive benissimo e che ogni concetto affrontato nel suo libro risulta chiaro e invoglia all’approfondimento.

Ma voglio bene a questo libro anche per altre ragioni. Di seguito proverò a parlarvene meglio che posso.

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#secondapelle #testolibero

Riflessioni su memoria, corpo e cibo

Stamani, costretta a casa dal tempo e dal mio polso ingessato, ho saltato la consueta camminata nei boschi di San Rossore e ho impiegato le ore a leggere. Del resto, camminare, leggere, sempre di avventura si tratta.
Mi sono imbattuta in un bell’articolo di Greta Plaitano su L’Indiscreto; un pezzo davvero interessante sul corpo come strumento di memoria basata sulle esperienze, sui sensi, sui sentimenti e le paure. In particolare, citando la studiosa Aleida Assmann, Plaitano parla di memoria d’archivio e memoria funzionale; e di quest’ultima come fenomeno fisiologico che costruisce un “repertorio di eventi realmente accaduti, che gravitano nel pensiero e dai quali l’uomo può attingere a suo piacimento. È un luogo in cui le cose non accadono per caso, seguendo un flusso, ma succedono secondo la volontà della persona.” L’autrice dell’articolo cita la memoria funzionale per introdurre e commentare un romanzo che spero di leggere presto, Il corpo ricorda di Lacy M. Johnson, pubblicato nel 2022 da NNE; il romanzo narra la storia (autobiografica) di un rapimento e di uno stupro, ricostruita attraverso la rilettura dei verbali della polizia (una sorta di memoria esterna) e il ricordo “fisico, sensibile” dell’amore tossico fra l’autrice e il suo aguzzino.
Il mio interesse per l’argomento dell’articolo e del romanzo nasce principalmente dal mio lavoro che ha a che fare ogni giorno con il corpo e le sue memorie, consistendo nel misurare, pesare, comprendere e aiutare le persone attraverso la scienza della nutrizione. Il corpo è l’interfaccia che fornisce dati, esprime disagi, verbalizza bisogni. Ma è anche materia complessa e stratificata che, agendo e muovendosi nel mondo, porta, o meglio trasporta, attraverso lo spazio e il tempo, il proprio vissuto. Ciò che viviamo è biologia, chimica, esperienza sensoriale e sentimentale. È, come scrive la Plaitano, l’insieme di “cicatrici, dolori e sensazioni investono non soltanto la sua superficie, ma anche l’interno celato all’occhio nudo come la carne e il DNA,  le sue strategie di sopravvivenza, movimenti psico-fisici stabilizzatisi nel tempo e messi in atto da generazioni”.
Su questa riflessione da stamattina, vado innestando riflessioni e assemblando cose imparate via via negli anni di studio e lavoro. Ma soprattutto cerco, come ogni volta che leggo cose interessanti, di trarne risposte, oppure domande che mi portano altrove costringendomi a ulteriori letture e riflessioni.
E quindi, il titolo e le letture di stamani mi hanno riportato indietro di qualche mese, a un bel saggio di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, Il corpo non dimentica (Raffaello Cortina Editore). Anche qui è il corpo con le sue esperienze a rappresentare il pilastro di una memoria funzionale: gli autori chiariscono la profonda connessione esistente fra le esperienze sensori-motorie e la relazione genitore-figlio. Lo fanno partendo dai miti antichi e dalla loro narrazione della nascita, evento traumatico segnato da conflitti e misfatti, abbandono e soppressione. Dai miti e dal loro pregnante insegnamento sull’ingresso pericoloso nel mondo, Ammaniti e Ferrari descrivono il processo di memoria atavica, ancestrale che ognuno di noi si porta dentro e che, arricchito da esperienze intrauterine e post-natali, intrecciato al programming fetale e alle esperienze epigenetiche, fornisce alla fine strumenti di relazione e socialità indispensabili: “le sensazioni provenienti dal corpo, sia a livello sensoriale che cinestetico, svolgono un ruolo determinante nella costruzione del sé infantile, contribuendo a determinare i confini corporei attorno a cui si sviluppano i processi mentali”. Il substrato fisico, dunque, è una sorta di stampo su cui archiviare strumenti ed esperienze, o se vogliamo “una morbida tavoletta d’argilla, una lastra di pietra da incidere a fatica o una carta manoscritta a inchiostro, il corpo è un catalogo, un registro che conserva milioni di informazioni esplicite e implicite” (cit. Plaitano).
Se aggiungiamo a questa considerazione che ogni nascita rappresenta una metamorfosi, che ognuno di noi ha “un passato ancestrale che fa di ciascuno dei nostri corpi una porzione limitata e infinita della storia della Terra, della storia del pianeta, del suo suolo e della sua materia (Metamorfosi, Emanuele Coccia, Einaudi), va da sé che dobbiamo pensare a noi stessi come a esseri antichi, complessi e cangianti. Allora tutto ciò che viviamo, non solo nelle prime fasi della nostra esistenza, ma anche dopo, da adulti, con le nostre fragilità e morbosità, sta nel corpo, lascia lì il suo graffio, e ci trasforma, ci ferisce, ci caratterizza e ci identifica. Allora, il cibo che diventerà corpo a sua volta, non è che memoria in fieri, materiale chimico che sedimenta, plasma, struttura, archivia il nuovo su contenuti che già trova. Di forma in forma, dall’utero al mondo, non facciamo che ripercorrere strade già battute, contraendo in un unico atto, la nascita, evoluzione e sviluppo, attraverso l’attitudine al nutrirsi, prima e dopo. All’inizio il nostro cibo è sangue di cordone e placenta, poi è il latte caldo e dolce della madre; in seguito, i colori, le consistenze varie, i sapori insoliti a forgiare una memoria gustativa con cui affronteremo il luogo in cui vivremo, buono o cattivo, accogliente o violento che sia. Ed è memoria chimica, di cellule, nervi e muscoli, pronta ad andare per il mondo e narrare di sé stessa e degli altri. È la memoria della diffidenza e del trauma, quella dei cuccioli del cacciatore-raccoglitore, che curiosi e sprovveduti sperimentarono per primi i pericoli di bacche e radici tossiche. È la memoria del corpo suscettibile, che reagisce all’aspro, al piccante, al viscido; ed è la memoria culturale, che prova disgusto all’idea di un grillo nel piatto. È la capacità di immagazzinare sensazioni e farne reazioni funzionali alla sopravvivenza, richiamando alla mente ora il ricordo ancestrale di un carnivoro predatore, ora l’abbraccio caldo di nostra madre.

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#secondapelle #testolibero morte, paure Racconti Scrittura

Storie di cibo e sentimento

Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose

Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.

Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.


Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.


Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.


Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.

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#secondapelle #testolibero

Trovare il nome alle cose

Stamani, prima di ogni cosa, sono andata a camminare in campagna. Il canneto si è agghindato dei fiori lilla della cicoria selvatica. Le lumache, sentendo la pioggia vicina, sono uscite dal verde, hanno attraversato il sentiero lasciandosi dietro le tracce umide di bava. Il campo che l’anno scorso era di girasoli, adesso è pieno di spighe dorate che, in alcuni punti, sono sdraiate per il sonno notturno di qualche animale. I rovi hanno già i loro piccoli fiori rosa pallido e la borragine resiste in certi angoli fitti, vellutata e blu. E poi, sul ciglio del sentiero, certe nuove fioriture viola che richiamano api e farfalle. Tornata a casa sono andata a cercarne il nome. Veccia villosa, si chiama la pianta, un legume coltivato come foraggio, ma che spesso si trova selvatico lungo i camminamenti.
Ho pensato, camminando, a certi cambiamenti che segnano il tempo. Quando si racconta, ricordi prima di quella certa cosa, oppure, fu dopo l’anno del… Ho pensato alle piccole ferite, un punto di sutura che traspare ancora da un tratto nascosto di pelle; al privilegio di accogliere le storie degli altri, di sentire nel petto certe emozioni che risuonano, si riconoscono, imparano da quelle altrui, vibrano insieme. Sentimenti specchio.
Ho pensato alla fortuna e al coraggio di chiamare ogni cosa col proprio nome.
La scrittura mi ha insegnato la precisione, la biologia ha risposto quasi sempre alle mie curiosità. Ciò che di insoluto è rimasto non può cambiare l’accaduto, non lo può peggiorare, non lo può migliorare. Può solo dare pace ai giorni a venire, a patto che gli si trovi un nome. Il più preciso possibile.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante fiore e natura
Veccia villosa – immagine dell’autrice
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Il senso dell’inverno

Certi sguardi sottili sul mondo

Le stagioni hanno il loro modo di vestire il mondo e mostrarcelo. Oppure di svestirlo, spogliarlo del superfluo e renderlo più chiaro, più comprensibile. Basterebbe un giardino, per rendersene conto. E l’ho avuto, molti anni fa, ma ero impegnata nella fatica di crescere e trovare la mia strada. E quindi mi sono persa storie di attese, bocci, germogli, colori, rivelazioni e fioriture.
Quando il rimpianto di quel tempo e di certe perdite diventa insopportabile, esco a camminare. A cercare il senso delle stagioni. In città, nel parco naturale vicino, nelle campagne limitrofe.

L’inverno in città sa di gelata mattutina sulle aiuole, bambini incappucciati, cani che tremano orinando contro un muro, gatti che cercano il primo sole agli angoli del quartiere. Vado a cercarne un nuovo senso a un passo da casa, pochi minuti di cammino. In Piazza dei Miracoli, nelle giornate terse, il marmo sembra ancora più brillante. I turisti saltellano per scaldarsi, ridono fra di loro di quell’espediente, mentre sgranano gli occhi sui monumenti, due anziani intirizziti si incontrano lungo le mura di Porta Nuova e decidono di prendere un caffè nel bar all’angolo di Piazza Manin.
Mi siedo sui gradoni dal Battistero e osservo, pensando al tipo di contemplazione che questo inverno induce qui. Il senso di questa stagione cittadina, il lessico delle persone, le parole dell’inverno. Freddino stamani, eh, si brezza, maremma son du’ gradi … Mi perdo a osservare il verde brinato del prato che sembra un tappeto di perle, lo stacco deciso sul bianco lucente dei marmi: il miracolo continua, ogni giorno dell’anno, mi dico. Ma d’inverno c’è questo silenzio ovattato fra i discorsi, sotto il cigolio di una bicicletta, sui camminamenti delle mura antiche. C’è il senso di questi giorni corti e diversi l’uno dall’altro come fiocchi di neve.

E poi c’è il parco, poco lontano dalla piazza. Anche qui, come in città, il segreto sta nello sguardo e nell’immaginazione. Nel Parco di San Rossore cammino lungo percorsi sterrati e un poco interni. Perché qui gli occhi hanno bisogno di visioni solitarie. Qui, quel senso dell’inverno di cui cerco il bandolo ha bisogno di solitudine e silenzio. A ogni passo mi concentro sui suoni. Ho bisogno di portarmi a casa questi fruscii, il verso ritmato del picchio, il rumore timido dei daini fra gli alberi. Il bosco si svela ai più pazienti e solo da questi si lascia contemplare. In cambio regala la pace preservata dal gelo dell’alba e dal tempo lento delle giornate rigide.
Qui, solo qui, capisco che non avrei potuto, allora, avere questo stesso sguardo. Che gli occhi diventano esperti in sguardi sottili dopo cinque decadi. Che tutti i sensi si affinano per percepire cose minuscole e preziose. Qui, d’inverno, nei colori del sottobosco, nell’argento delle gelate mattutine, e nella povertà indifesa di certi alberi, c’è qualcosa che mi rapisce e mi sorprende. Qui, il rimpianto esiste appena, quasi lo dimentico. In questo posto, d’inverno, ogni cosa è limpida. E mentre cammino, mi sembra quasi d’esser trasparente.


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#testolibero malattia, ansia morte, paure paura vuoto, empatia, ascolto, cambiamenti

Sopravvivere all’empatia

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Il mio è un lavoro di continui aggiornamenti e metamorfosi. Dopo due anni di pandemia è notevolmente cambiato. Di nuovo. Ancora.
Ogni volta che il mio lavoro cambia, io lo seguo e mi trasformo. Divento più introspettiva, più silenziosa, a tratti più pervicace. Sento la necessità di rallentare e interrogarmi con insistenza, sugli altri, su me stessa.

Negli ultimi tempi i racconti sul corpo e sul cibo si sono fatti dolorosi, a tratti feroci. Sono aumentati i disturbi legati alla nutrizione e all’alimentazione, si sono trasformati, hanno assunto caratteri nuovi, contorni più sfumati, aeree sovrapposte; la loro urgenza è più invasiva. Nella mia stanza di misurazioni e piani alimentari approdano narrazioni in cui il corpo è la parte offesa della storia, il cibo lo strumento con cui il corpo si racconta. E la malattia, che sempre più spesso conduce alla consultazione, diffonde in ogni anfratto, occupa spazio e tempo in modo pervicace. Oppure diventa insieme al corpo e al cibo un enorme buco nero che tutto ingoia e tutto poi rigurgita.

Oliver Sacks scrisse che tutti gli animali si ammalano, ma che soltanto l’essere umano “cade radicalmente in preda alla malattia”. Questo “cadere” è territorio di un movimento inarrestabile di racconti, ascolti, dubbi, riflessioni, tentativi di aiuto e risoluzione.
Mi dico spesso, immaginandone il sollievo, che si potrebbe passare oltre, limitarsi a registrare pesi e circonferenze, misurare pliche; non affacciarsi mai nel cortile buio e desolato di certe vite. Si potrebbe filtrare ogni narrazione, lasciar passare solo gli aggettivi moderati, i toni più accettabili. Si potrebbe affidarsi a una modalità anamnestica superficiale, sufficiente, fermarsi alla sua “forma di storia naturale” che, per citare ancora Sacks, nulla o poco direbbe dell’indole e dell’esperienza di chi la racconta. Potrebbe bastare. Ma l’identità è un’altra cosa. È una storia di figure archetipe, di miti, abbandoni, abusi, paure. L’identità è materiale prezioso e delicato. Per conoscerla e comprenderne la storia si deve andare oltre, lasciarsi invadere da certi racconti, spalancare gli occhi sulla fragilità e sull’abbrutimento, sulle ossessioni e sull’autosvalutazione. E fare i conti con tutto ciò che ne conseguirà.

C’è una certa propensione all’autoflagellazione nel voler osservare ogni cosa affiori dal racconto di una malattia o di un disagio transitorio che coinvolga il corpo e il suo cibo. C’è la consapevolezza del rispecchiamento che porta all’immedesimazione, al cortocircuito da cui origina la relazione di aiuto, con i suoi benefici e i suoi costi emotivi. Una cosa che chiamiamo nel suo complesso empatia. Da fuori ha un odore buono, ma nasce dalla finitezza che accumuna tutti, dai primi presagi di morte che dopo l’età di mezzo cominciamo a riconoscere e ad accogliere. Nasce da un grumo di precoce marcescenza.
C’è qualcosa di inumano e feroce in questo voler annusare certe disperazioni, certe paure, le ansie di un genitore, l’assertività dolorosa di un’adolescenze che si lascia emaciare dall’inedia, l’autosvalutazione di una persona che non vuole più prendersi cura di sé. C’è il paradosso di scovare l’usurpatore e lasciarsi occupare, sconfiggere, saccheggiare. Soppesare il giudizio che ferisce un individuo e sospendere totalmente il proprio. Esorcizzare lo stigma che colpisce gli altri attraverso l’annientamento di una parte di sé. E poi, la volontà di guidare, modificare, entrare nella vita altrui, sebbene il fine sia arrecare loro un vantaggio.

È questo che significa immedesimarsi, dunque? È questa l’empatia? Me lo chiedo ogni giorno, mentre continuo a farmi oggetto plastico di una disciplina che sugli altri funziona al contrario. Me lo chiedo mentre una bambina mi racconta di tutte le volte che qualcuno le ha intimato di non abbuffarsi, o davanti alle lacrime di un ragazzino vessato per il suo corpo minuto e femminile. Mentre mi sento lei, mentre mi sento lui, io continuo a chiedermi se sopravvivrò al cortocircuito, se riuscirò a guardare il trasparente e a vederlo nella sua interezza, e poi a ridurlo in frammenti da riassemblare senza ferire, senza ferirmi.
E faccio i conti con l’istinto tellurico e primordiale di prendere le distanze, di etichettare e omologare, giudicare, assolvere o condannare. Di difendermi, sentirmi migliore. Infine, tornare in superficie a respirare.

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Con i piedi insanguinati

In uno dei miei dormiveglia notturni mi sono raccontata alcune storie che sapevo già. A volte ripassare serve. Per esempio a cambiare il finale. A immaginarie scenari diversi, alternativi. C’è sempre una porta che non abbiamo visto, una stanza che non abbiamo ancora abitato, un gioco con cui non abbiamo mai giocato. Vecchie foto che ritraggono, dietro noi da piccoli, parenti sconosciuti, amici di famiglia di cui non abbiamo mai sentito parlare.

Quindi, dicevo, ero in dormiveglia e mi sono raccontata delle storie. La storia di due etichette: “cose da maschi” e “cose da femmine”. Giocare al flipper era da maschi, etichetta azzurra; con le bambole da femmine, al mercato, pure, da femmine, etichetta rosa. Alla mamma e al papà, sei maschio fai il papà, sei femmina fai la mamma. Al dottore, maschio, la femmina era l’infermiera o la paziente. Ai cowboy non ci giocavo mai. Semmai, in casi estremi, facevo il cavallo o la prigioniera Sioux. I soldatini e le macchinine erano da maschi e quindi ringraziavo mille volte se mio fratello mi ci faceva giocare quando restava a corto di amici.
Ho ripassato poi quell’altra storia, quella della bambola appena ricevuta in regalo che ritrovai con i capelli tagliuzzati da un serial killer presente alla festa, e ho cambiato la fine.
Il dormiveglia talvolta è magico.
Finale nuovo. Alla festa del mio ottavo compleanno nessuno ha regalato bambole, orecchini, braccialetti e calzettoni rosa: non ricordo cosa hanno portato gli invitati alla mia finta festa. Ma di sicuro abbiamo fatto mille giochi di società, poi, nascondino per casa. Dopo la torta ci siamo seduti a raccontare storie di fantasmi. E tutti, bambine e bambini, ne abbiamo avuto paura.

Di un’altra storia nel dormiveglia ho cambiato il finale. Una giovane donna sta lavorando per una tv, ha un microfono in mano, fa la sintesi di un evento sportivo. Un uomo le passa accanto e le palpeggia il sedere. Non la conosce, non c’è alcuna intimità, non le ha chiesto il permesso, non si è fermato a scusarsi. Dallo studio il collega della donna ha minimizzato e continuato come se niente fosse. Invece, no.
Dormiveglia magico.
La parte nuova della storia: il collega dallo studio interrompe il programma e dichiara che è successa una cosa grave e spiacevole, che il collegamento finisce lì, che la tv e i suoi dipendenti sono solidali con la giovane collega, che qualcuno dallo studio sta già chiamando la polizia per segnalare l’accaduto, che queste cose non devono più accadere.

Poi credo di essermi addormentata e aver sognato altre storie. Fatte e finite. Un sacco di etichette rosa e azzurro dal mio precedente dormiveglia non so come sono finite qui.
Ci sono due sorellastre a cui viene chiesto di calzare una piccola scarpa di cristallo per dimostrarsi degne di sposare un principe. Una ha l’alluce troppo grosso. Tagliati il dito, dice la madre. Lei si taglia il dito e calza la scarpa. Il sangue fuoriesce a fiotti ed è ben visibile a tutti. Non è degna. Allora tocca alla sorella che però ha il calcagno troppo sporgente. Tagliati un pezzo di calcagno, dice la madre. Lei obbedisce e calza la scarpetta. Ma nemmeno lei risulta degna dell’uomo da sposare.

Appena sveglia voglio cercare un nuovo dormiveglia, la porta che mi è sfuggita, e cambiare questo finale, mi dico nel sonno. Anzi, lo racconto all’uomo che tiene in mano la scarpetta di cristallo. Lui mi guarda basito, poi ritrova la voce e mi apostrofa: ce l’abbiamo già il finale, sappiamo già chi sposerà il principe e tu non puoi farci niente, non puoi salvare nessuno. Le vogliamo belle, a palazzo, umili e obbedienti. Rassegnati e continua pure a dormire. Credo anche che mi abbia chiamata “povera illusa” ma non ci giurerei, stavo per svegliarmi, mi ero già allontanata.

Mi sono svegliata e non sono riuscita più a dormire, né a ritrovare la porta che cercavo, un altro dormiveglia. La storia è rimasta quella, fatta e finita, con l’uomo saccente che regge la scarpetta.
Sono rimasta la stessa anch’io, dopo tutto, sfatta e sfinita.
per un bel pezzo, immobile e impotente sotto le coperte, a fare i conti con le mie porte chiuse e i miei piedi insanguinati.

… vide il sangue che sgorgava sdalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze bianche*.

*J e W. Grimm, Fiabe. Einaudi. Traduzione di C. Bovero, prefazione di G. Cocchiara

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Con le ossa rotte. L’arte di raccogliere i frammenti -In allarmata radura

All’ingresso del mio studio, aspetto una nuova paziente. Di fronte a me, sul pianerottolo, la grande finestra si affaccia sulla piazzetta. In basso, ci sono i tavolini di un bar e persone sedute a bere, mangiare, chiacchierare. Chi sono, che lavoro fanno, che pensieri masticano insieme alla colazione? Penso al tempo che dedichiamo al cibo, alla qualità di questo tempo, a quanto ciò che mangiamo sia strumento, sostentamento e conforto. Ci penso per deformazione professionale e per una certa deriva a cui sono soggetta da qualche anno. Mi distraggo, ultimamente, da grafici, tabelle e manuali. Forse è l’età di mezzo, forse la malattia che ho affrontato di recente a rendermi più distratta.

Certe volte penso che sono sbagliata. Mi guardo indietro e ne ricevo conferma da certe fragilità che mi danneggiano oppure, al contrario, mi salvano la vita. Non l’ho ancora capito.

La mia formazione scientifica mi ha partorita analitica e riduzionista. A causa di un’inquietudine congenita non sono però riuscita a restarmene chiusa in un laboratorio di ricerca a cui, – per passione e per dispetto a chi mi aveva sbeffeggiata per i miei sogni di ragazza, – approdai dopo la laurea. Negli anni novanta la biologia riempì la mia testa e la mia esistenza. Giornate intere chiusa in un laboratorio. La vita minuscola saggiata a suon di cromatografie, elettroforesi, saggi enzimatici, fluorescenza, radioattività. Roba che dà risposte, dati numerici, percentuali, immagini incontrovertibili. Nero su bianco. E io, ostinata e motivatissima, numeravo i quaderni degli esperimenti, catalogavo risultati da interpretare con cura e precisione, mi godevo il nome sulle prime pubblicazioni.

La mia formazione scientifica mi ha partorita sicura che la chimica e la fisica mi avrebbero aiutato a capire e a rispondere a ogni quesito. Francis Crick un anno prima della mia nascita, aveva affermato che l’obiettivo finale della scienza moderna è la comprensione della biologia in termini di fisica e chimica. Era stato il mantra dei miei anni di studio. Crick, Watson e la loro doppia elica. Indiscutibili.

Del resto, mi ripetevo dal sacco amniotico dei miei studi, attaccata al cordone ombelicale delle mie ambizioni da scienziata, un sistema biologico cos’altro è, se non un insieme di atomi e molecole studiabile, decifrabile, intellegibile attraverso leggi e assiomi, formule e reazioni?

Poi arrivò un sentimento sconosciuto a guastarmi la festa, a dirmi che forse non ero fatta per quel lavoro, per quel genere di pervicacia. Arrivò un senso di manchevolezza che mi tolse il sonno per anni.

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Riflessioni su “L’acqua del lago non è mai dolce” di Giulia Caminito

Il lago non è come il mare

Mentre rifletto su questo romanzo letto qualche settimana fa penso soprattutto alla sua ricchezza e lo immagino come un cesto capiente, intrecciato a mano con materie prime differenti. Nel libro di Giulia Caminito, infatti, ci sono molte cose. Una famiglia in difficoltà, guidata da una madre fiera e battagliera; il lago di Bracciano, la cittadina di Anguillara, adolescenti inquieti, bulli e ragazze in boccio, oggetti desiderati, sogni grandi, piccoli, infranti; amicizia e amori ruvidi ed esplosivi. Continua a leggere …

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Mille cose che brillano

Da poco più di un mese ogni mattina al risveglio mi passo una mano sul seno destro. È il mio ultimo campo di battaglia, tangibile, di carne e pelle. Ce ne sono stati altri, negli anni, che non si vedono e che non posso toccare. Sono stata operata a dicembre, ma la battaglia è cominciata mesi prima, sotto il sensore ecografico della mia senologa che a un tratto smette di conversare e si avvicina al monitor con l’aria compunta. Qualcosa non la convince, dice che vuole rifarmi l’ecografia con un altro apparecchio. Ci spostiamo in un’altra stanza, mi stendo su un altro lettino, sotto un altro sensore. Lei seria, continua a studiarmi, l’anno scorso andava tutto bene, l’addensamento non c’era. Io non chiedo niente, io so già. Lo so per mia madre, per le donne che vedo nel mio studio e mi raccontano, per le statistiche che sono oracoli, perché ho l’età in cui accadono queste cose a tante di noi. Non dico niente, attendo che lei si decida a dare un responso, il via a una fatica che è già iniziata da quando ha smorzato la sua consueta cordialità e ha assunto quel piglio pensieroso. Continua a leggere su AlPassoCoiTempi