Stamani sono uscita presto. Mi sono svegliata con un’energia insolita e ho fatto un giro largo in bici. Il tempo promette pioggia e spero con tutto il cuore che pioggia sia. Leggevo Levi, prima, a casa, qualche pagina de Il sistema periodico che ho a portata di mano da molti mesi. Finisco e ricomincio a leggere senza soluzione di continuità; è magico, ogni volta sembra un libro nuovo. Il capitolo Cerio, dunque, lantanide, elemento delle terre rare. Leggevo di un barattolo senza etichetta, cosa insolita in un laboratorio chimico tedesco; della ricerca di una confezione adeguata al trasporto clandestino di un materiale barattabile. C’è una pagina meravigliosa sulla corruttibilità degli imballaggi naturali: la membrana cellulare, il guscio dell’uovo, la buccia delle arance. Non esisteva il polietilene, scrive Levi, flessibile, leggero e incorruttibile, così incorruttibile che “il Padre Eterno medesimo, che pure è maestro in polimerizzazioni, si è astenuto dal brevettarlo: a Lui le cose incorruttibili non piacciono”. Leggevo di un certo tipo di fame che rende bestiali e corruttibili, insieme a speranza e disperazione alternantesi a un ritmo “che avrebbe stroncato in un’ora qualsiasi individuo normale. Noi non eravamo normali perché avevamo fame”. E a causa di quella fame Primo Levi dovette imparare a rubare. Non il pane degli altri, scrive, ma merce che poteva scambiare con del pane per sé. Continuo a pensare a questa frase, non il pane degli altri, e al senso del limite, prezioso più del cerio, molto più del polietilene.
Il cielo si è rabbuiato un altro po’. Ho messo la bici al riparo, gesto superfluo: una bella acquata, confesso, al ritorno la prenderei volentieri.
Le stagioni hanno il loro modo di vestire il mondo e mostrarcelo. Oppure di svestirlo, spogliarlo del superfluo e renderlo più chiaro, più comprensibile. Basterebbe un giardino, per rendersene conto. E l’ho avuto, molti anni fa, ma ero impegnata nella fatica di crescere e trovare la mia strada. E quindi mi sono persa storie di attese, bocci, germogli, colori, rivelazioni e fioriture. Quando il rimpianto di quel tempo e di certe perdite diventa insopportabile, esco a camminare. A cercare il senso delle stagioni. In città, nel parco naturale vicino, nelle campagne limitrofe.
L’inverno in città sa di gelata mattutina sulle aiuole, bambini incappucciati, cani che tremano orinando contro un muro, gatti che cercano il primo sole agli angoli del quartiere. Vado a cercarne un nuovo senso a un passo da casa, pochi minuti di cammino. In Piazza dei Miracoli, nelle giornate terse, il marmo sembra ancora più brillante. I turisti saltellano per scaldarsi, ridono fra di loro di quell’espediente, mentre sgranano gli occhi sui monumenti, due anziani intirizziti si incontrano lungo le mura di Porta Nuova e decidono di prendere un caffè nel bar all’angolo di Piazza Manin. Mi siedo sui gradoni dal Battistero e osservo, pensando al tipo di contemplazione che questo inverno induce qui. Il senso di questa stagione cittadina, il lessico delle persone, le parole dell’inverno. Freddino stamani, eh, si brezza, maremma son du’ gradi … Mi perdo a osservare il verde brinato del prato che sembra un tappeto di perle, lo stacco deciso sul bianco lucente dei marmi: il miracolo continua, ogni giorno dell’anno, mi dico. Ma d’inverno c’è questo silenzio ovattato fra i discorsi, sotto il cigolio di una bicicletta, sui camminamenti delle mura antiche. C’è il senso di questi giorni corti e diversi l’uno dall’altro come fiocchi di neve.
E poi c’è il parco, poco lontano dalla piazza. Anche qui, come in città, il segreto sta nello sguardo e nell’immaginazione. Nel Parco di San Rossore cammino lungo percorsi sterrati e un poco interni. Perché qui gli occhi hanno bisogno di visioni solitarie. Qui, quel senso dell’inverno di cui cerco il bandolo ha bisogno di solitudine e silenzio. A ogni passo mi concentro sui suoni. Ho bisogno di portarmi a casa questi fruscii, il verso ritmato del picchio, il rumore timido dei daini fra gli alberi. Il bosco si svela ai più pazienti e solo da questi si lascia contemplare. In cambio regala la pace preservata dal gelo dell’alba e dal tempo lento delle giornate rigide. Qui, solo qui, capisco che non avrei potuto, allora, avere questo stesso sguardo. Che gli occhi diventano esperti in sguardi sottili dopo cinque decadi. Che tutti i sensi si affinano per percepire cose minuscole e preziose. Qui, d’inverno, nei colori del sottobosco, nell’argento delle gelate mattutine, e nella povertà indifesa di certi alberi, c’è qualcosa che mi rapisce e mi sorprende. Qui, il rimpianto esiste appena, quasi lo dimentico. In questo posto, d’inverno, ogni cosa è limpida. E mentre cammino, mi sembra quasi d’esser trasparente.
Mi sveglio ogni notte e ho paura. Anzi, ho molte paure diverse che dapprima arrivano in sequenza ordinata e sotto forma di dolori che posso riconoscere. Il rammarico, la morte, le colpe. E poi si accumulano, si accartocciano, si sovrappongono nei miei risvegli, come agli angoli di un vicolo. Si tramutano in animali notturni dentro un tronco cavo.
Mi sveglio con le mani intorpidite e uno scricchiolio alle vertebre del collo. Mi spiego ogni cosa in modo razionale. Sindrome del tunnel carpale. Artrosi dei processi cervicali. Poi divago. Procedo all’indietro. Scendo da un albero in cerca di cibo. Costringo la mia colonna alla postura eretta. Mentre nel letto accomodo i cuscini sotto il collo, mi dico che sto pagando il gesto sconsiderato dei miei progenitori: affidare la presunzione del bipedismo a una fila di piccole ossa irregolari e cave.
Avrei voglia di alzarmi ma tergiverso, per certi fantasmi che sento muovere nelle stanze, nei corridoi, mentre attraversano pareti e porte chiuse. Niente di male, penso. Ogni casa è abitata da presenze pregresse. Chissà chi c’era qui prima di me, chi è morto in questa camera che ho arredato con colori chiari e tende leggere. E prima ancora che costruissero il palazzo, che asfaltassero la strada, che le dessero il nome di un pittore sconosciuto. Chissà chi si è svegliato qui, nel cuore della notte, in preda alle sue paure.
Rientro in un dormiveglia inquieto, un posto peggiore della veglia. Un luogo saccheggiato, in cui la realtà entra senza chiedere permesso e porta via ogni tentativo di ristoro, la speranza di un sogno. Abbandona i suoi rifiuti in questo territorio di nessuno e ogni notte non faccio che ripulire, rassettare. È il dormiveglia, mi dico, lavoro inutile. Ma ci ricasco di continuo. In questo luogo dell’eterno caos si accatastano le cose che ancora devo fare, quelle che ho lasciato a metà, doveri che ho sottovalutato. E mi sento invadere dalle colpe. Da qualche parte ho letto di donne non più giovani e non ancora anziane che in certe tribù sono considerate depositarie di saggezza, guida luminosa per le altre. Risparmiano il sangue e le energie per svolgere al meglio questo compito. Dalla mia età, questo che ci si aspetta; non è più tempo di paure o sconsideratezze. Ma come si fa ad essere sagge senza il riposo della notte?
Sono di nuovo sveglia con il suono di questa domanda nelle orecchie. Meglio pensare ai fantasmi che alla propria manchevolezza.
Mi metto a leggere da un lettore digitale. Una lettura silenziosa, senza il rumore della carta. Leggo di bambini abbandonati, di favole crudeli. Quanto edulcoriamo quelle che raccontiamo ai nostri figli. Poi salto interi capitoli, cambio addirittura testo, vado a cercare un saggio sui disturbi del sonno che ho letto un anno fa. Ritrovo la storia di un uomo affetto da una grave parassonnìa che ogni notte aggredisce fisicamente sua moglie. Anche il sonno è territorio di nessuno, vi accadono cose terribili, nessuno che controlli, nulla che argini e contenga. Resto un attimo a riflettere su quest’ultimo pensiero. Il sonno, luogo impervio. Ma la sua deprivazione non è forse causa e sintomo di follia?
Cambio posizione, mi giro sul fianco sinistro, quello in cui gli organi addominali riposano meglio. Sento il fruscio di una vestaglia lungo il corridoio. Passi piccoli e svelti di bambini. Una palla di gomma che morbida rimbalza, risate sommesse e il fumo soffiato nel bel mezzo di una frase. E non so se sto sognando o solo ricordando, mentre ancora muovo le dita, ché se la palla arriva fino a qui l’afferro. Posso giocare anch’io? Forse se mi stanco un po’, dopo riposo. Sorrido. Ed è l’alba.
Steso per terra, massiccio pallido indifeso. Ancora caldo, non più vivo. Qualcosa di vitale. Un’orma tra le foglie, muschio sulla corteccia. Eri la mia quercia. E poi non eri più. Mi curvai sopra di te, la mia testa sul tuo petto. Il cuore fermo. Il cuore fermo. Stava accadendo. Mi chiesi quanto ci avrebbe messo l’amore a svanire dopo l’ultimo battito. Mi rispondo dopo vent’anni. Un muschio sempreverde, un’orma fossile. Oltre i battiti. Non è materia marcescente. Ancora è qui.
C’era un binario unico, erboso e poco frequentato. Il treno transitava di rado e mai si fermava. Io, ad esempio, l’ho visto una volta sola ed era quasi vuoto. Un vero peccato, un paese senza una stazione. Come se non avesse sufficiente dignità. Chiunque fosse voluto arrivare fino a quell’ammasso di case senza difficoltà né interruzioni, cosa avrebbe dovuto fare, dunque? Lanciarsi dal finestrino? Montare in groppa a un asino? Una piccola stazione, per dio. Cosa avrebbe mai sottratto, dico, al resto del mondo?
Passi e pensieri. Stamani, a camminare, dopo l’interruzione per un dolore a un ginocchio. Temevo peggiorasse e mi sono fermata per un po’. Dopo l’anno delle battaglie vinte, arriva la paura predittiva per cose piccole e grandi. Mi ricorda quella dei bambini che temono gli assaggi di cibi che un giorno hanno vomitato. Colpa di cose cui sto lavorando. Sono uscita con questi pensieri accartocciati, sperando di svuotare la mente come un secchio. Invece. Pensieri e passi. Passi e pensieri. Ho trovato la campagna diversa. Spighe e infiorescenze selvatiche hanno cambiato colore. Lungo i sentieri l’erba ondeggia rossa di papaveri. Un canneto si è infittito e sottovento produce un suono pieno e compatto, quasi di schiocco. Mi sono persa il tempo della trasformazione e mi dispiace. Sono tante le cose che perdo. Mi consolo con quelle nuove che arrivano. Interessi e progetti che non so dove mi condurranno. Ci vorrebbero altre vite. Ma è già così difficile tenersi aggrappati a quella che abbiamo in dotazione. E niente. Studio cose che in passato ho trascurato. È così faticoso imparare da grandi. È così bello imparare da grandi. I pensieri si arrotolano intorno a questa faccenda su cui continuo a non avere le idee chiare. Cerco una distrazione, il verso sgraziato di due cornacchie che ho disturbato nel loro rituale amoroso. Hanno ragione, sono l’intrusa. Mi guardo intorno e scopro di essermi allontanata più del solito. Rientro. Sorrido. Il ginocchio va alla grande.
Una casa con un balcone che girava attorno alle stanze. Noi bambini, come sulla giostra, a cavallo delle scope, sembravamo streghe e stregoni. Mio fratello cadde e si fece male. Il sangue sulle piastrelle svelò l’incantesimo, un gioco troppo frenetico da fare su un balcone. Si alzò subito, rise della sua ferita, come i soldati reduci da una battaglia vinta. Io che di magie non mi sono mai occupata, vedendo il sangue piansi e chiamai aiuto. Non è niente, disse mia madre, prendo i cerotti. Eppure restai sgomenta e preoccupata per giorni. Ero già perduta dietro certi piccoli dolori che non passano mai. Ancora torno alle piccole ferite dei bambini, alla casa piena di voci argentine, a incidenti e cerotti rimasti laggiù. Da quelle stanze arriva di continuo l’eco infinita che sa di litigi e canzoncine. E mi pare di essere rimasta da sola ad ascoltare.
Ho uno strano rapporto con la staticità degli spazi. Mi dà un senso di vertigine. Scoraggia la mia intraprendenza per mancanza di variabili. Come le equazioni matematiche investo energie nelle occasioni prodotte dalle variabili. Se tutto resta fermo per troppo tempo mi fermo anch’io. E il troppo o il poco relativi al tempo costituiscono anch’essi una variabile importante.
Gli scaffali della libreria, ad esempio, hanno una vita dinamica. Lo spazio a disposizione cambia aspetto continuamente, influenzato dalla preferenza con cui amo riporre il libri letti e quelli da leggere. Mi oriento nella loro oscillazione temporale riconoscendo nella disposizione i miei stati d’animo recenti.
Gli armadi di casa che a ogni cambio di stagione si svuotano e si riempiono non hanno mai la stessa organizzazione. È il motivo per cui non trovo mai nulla, perdo tutto di continuo. Sarebbe più pratico farsi una mappa mentale logica di ogni cosa, ma non sono mnemonicamente e cognitivamente attrezzata. Ho bisogno di perdere e cercare, perché in questo tempo do significato alle cose, alle parole con cui le chiamo e al motivo per cui ho cambiato loro di posto. Faccio della smemoratezza il mio conta passi.
Stessa sorte per gli arredi casalinghi. Li sposto periodicamente, modificando l’aspetto di una stanza e la sua funzionalità. Vivermi accanto è difficile. Ma è roba da vivi e vegeti, su questo nessun dubbio.
Le pagine bianche mi sgomentano. Sono abissi pericolosi. Una volta che le ho riempite so di avere un luogo in cui tornare. Ogni volta che torno modifico, sottolineo, coloro, strappo, ritaglio, incollo, dato. Ritornando di nuovo so di essere già passata di là, interpreto le tracce del passaggio e ne lascio delle altre. A distanza di tempo mi serviranno per sapere che c’ero e cosa provavo.
Ho uno strano rapporto con la staticità degli spazi. Quelli vuoti, statici per definizione, mi fanno impazzire. Non danno scampo. Somigliano alla morte. Condannano definitivamente all’inutilità. Basta porvi dentro una sedia, un libro, una maglia e io mi oriento. Meglio ancora con una manciata di parole.
Sono fortunata, io, con le mie due metà, l’una cresciuta a pane e parole e l’altra tirata su a chimica organica e biologia. Mi colloco in quella parte del mondo immaginario di cui qualcuno non sa dire nulla se non che o fai una cosa oppure ne fai un’altra. Lo stesso mantra che per anni mi son sentita predicare mentre studiavo e lavoravo insieme. Avere due metà così prolifiche invece è un privilegio. Il risultato, un compiaciuto intero.
Lo tratto bene, io, il mio privilegio. La biologia è materiale di scrittura creativa, la propensione alle parole è strumento per raccontare la biologia. Le mie metà vanno d’accordo fra di loro e, stranamente, anche con quella parte di me che sa essere esigente e tenace fino all’ossessione, creativa e rigorosa come le due metà le ordinano da sempre. Che poi scrivere non è che una delle mappe a disposizione di chi nasce e comincia a viaggiare fuori da sua madre. È come il remo che spinge avanti la barca, la luna che illumina il giardino. La musica che colma e risolve il silenzio cupo.
Ho la fortuna di insegnare e di aiutare le persone a fare del loro cibo strumento di salute. E non è forse il buon cibo come le parole? Nutre, sazia, gratifica. Non c’è dicotomia ma fratellanza, lo penso ogni volta che qualcuno me ne chiede conto. Ma come fai, come concili? Non avverto alcun bisogno di conciliazione. Non chiedo salvezza da questo dimezzamento. Qualora si arrivasse allo scontro (a volte capita) l’accolgo, mi faccio campo di battaglia, lascio procedere le fazioni contrapposte; e prendo il meglio dalle due metà, ne faccio un tappeto, una cesta, un maglione. Qualcosa che mi torni utile sul momento o in futuro. Accade sempre. Accade per natura che arrivi il momento di ringraziare il fato.
Le mie metà non sono causa dell’insonnia che a cicli viene a visitare le mie notti. Credo che accada il contrario: è l’insonnia a costruire fra loro ponti e cerniere, che le rende forti e le struttura nell’intesa di una fratellanza. È l’insonnia, sono tutti i pensieri che contiene a fortificare delle due metà diversità e congruenze. Due palazzi che si sorreggono fra loro.
È sempre stato così. È la carne che viene da mia madre e da mio padre. Non ho mai trascurato la scrittura e la lettura quando sembravo dedita completamente alla biologia. Non ho tralasciato la mia scienza-fondamento quando ho dedicato tempo alle parole. È solo questione di occasioni e di possibilità. E di quell’arbitrio libero e incondizionato che mi fa scegliere di concedere spazio e tempo alle due metà che mi compongono, che mi fa dire sono entrambe me, fino al midollo. Riconoscerlo è terapeutico. Accettarlo inebriante.
Di cose dimenticate e poi riemerse. Di parole acuminate che sembravano spine. La più piccola. La più piccola della classe. La più piccola del gruppo. La più piccola dell’elenco, della schiera, della serie, della squadra. La fatica di essere “ina”, che deve competere, che deve farcela, che deve vincere. Ma vincere cosa? È un’illusione la gara cui gli altri ti hanno iscritto. Competi con te stessa, non con gli altri. Odii te stessa, combatti la “ina” che è in te, se vinci è contro te stessa. Ti ammazzi. E mentre ti uccidi accontenti, compiaci, inorgoglisci. Gli altri, però. Tu resti indietro. Avanti c’è sempre qualcun altro che è più. Nessuno capisce che vuoi stare fuori dalla gara. Nessuno sa, nessuno vuol sapere. Nessuno. Non sei di nessuno e tutti ti vogliono prima. Non sei di nessuno e tutti ti usano per arrivare primi. Poi da grande ti scopri brava. Non più. Non meno. Normale. Solo tu. Sei brava di una bravura che nessuno ha previsto, su cui nessuno ha scommesso. La tua. Finalmente.
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