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#testolibero malattia, ansia morte, paure paura vuoto, empatia, ascolto, cambiamenti

Sopravvivere all’empatia

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Il mio è un lavoro di continui aggiornamenti e metamorfosi. Dopo due anni di pandemia è notevolmente cambiato. Di nuovo. Ancora.
Ogni volta che il mio lavoro cambia, io lo seguo e mi trasformo. Divento più introspettiva, più silenziosa, a tratti più pervicace. Sento la necessità di rallentare e interrogarmi con insistenza, sugli altri, su me stessa.

Negli ultimi tempi i racconti sul corpo e sul cibo si sono fatti dolorosi, a tratti feroci. Sono aumentati i disturbi legati alla nutrizione e all’alimentazione, si sono trasformati, hanno assunto caratteri nuovi, contorni più sfumati, aeree sovrapposte; la loro urgenza è più invasiva. Nella mia stanza di misurazioni e piani alimentari approdano narrazioni in cui il corpo è la parte offesa della storia, il cibo lo strumento con cui il corpo si racconta. E la malattia, che sempre più spesso conduce alla consultazione, diffonde in ogni anfratto, occupa spazio e tempo in modo pervicace. Oppure diventa insieme al corpo e al cibo un enorme buco nero che tutto ingoia e tutto poi rigurgita.

Oliver Sacks scrisse che tutti gli animali si ammalano, ma che soltanto l’essere umano “cade radicalmente in preda alla malattia”. Questo “cadere” è territorio di un movimento inarrestabile di racconti, ascolti, dubbi, riflessioni, tentativi di aiuto e risoluzione.
Mi dico spesso, immaginandone il sollievo, che si potrebbe passare oltre, limitarsi a registrare pesi e circonferenze, misurare pliche; non affacciarsi mai nel cortile buio e desolato di certe vite. Si potrebbe filtrare ogni narrazione, lasciar passare solo gli aggettivi moderati, i toni più accettabili. Si potrebbe affidarsi a una modalità anamnestica superficiale, sufficiente, fermarsi alla sua “forma di storia naturale” che, per citare ancora Sacks, nulla o poco direbbe dell’indole e dell’esperienza di chi la racconta. Potrebbe bastare. Ma l’identità è un’altra cosa. È una storia di figure archetipe, di miti, abbandoni, abusi, paure. L’identità è materiale prezioso e delicato. Per conoscerla e comprenderne la storia si deve andare oltre, lasciarsi invadere da certi racconti, spalancare gli occhi sulla fragilità e sull’abbrutimento, sulle ossessioni e sull’autosvalutazione. E fare i conti con tutto ciò che ne conseguirà.

C’è una certa propensione all’autoflagellazione nel voler osservare ogni cosa affiori dal racconto di una malattia o di un disagio transitorio che coinvolga il corpo e il suo cibo. C’è la consapevolezza del rispecchiamento che porta all’immedesimazione, al cortocircuito da cui origina la relazione di aiuto, con i suoi benefici e i suoi costi emotivi. Una cosa che chiamiamo nel suo complesso empatia. Da fuori ha un odore buono, ma nasce dalla finitezza che accumuna tutti, dai primi presagi di morte che dopo l’età di mezzo cominciamo a riconoscere e ad accogliere. Nasce da un grumo di precoce marcescenza.
C’è qualcosa di inumano e feroce in questo voler annusare certe disperazioni, certe paure, le ansie di un genitore, l’assertività dolorosa di un’adolescenze che si lascia emaciare dall’inedia, l’autosvalutazione di una persona che non vuole più prendersi cura di sé. C’è il paradosso di scovare l’usurpatore e lasciarsi occupare, sconfiggere, saccheggiare. Soppesare il giudizio che ferisce un individuo e sospendere totalmente il proprio. Esorcizzare lo stigma che colpisce gli altri attraverso l’annientamento di una parte di sé. E poi, la volontà di guidare, modificare, entrare nella vita altrui, sebbene il fine sia arrecare loro un vantaggio.

È questo che significa immedesimarsi, dunque? È questa l’empatia? Me lo chiedo ogni giorno, mentre continuo a farmi oggetto plastico di una disciplina che sugli altri funziona al contrario. Me lo chiedo mentre una bambina mi racconta di tutte le volte che qualcuno le ha intimato di non abbuffarsi, o davanti alle lacrime di un ragazzino vessato per il suo corpo minuto e femminile. Mentre mi sento lei, mentre mi sento lui, io continuo a chiedermi se sopravvivrò al cortocircuito, se riuscirò a guardare il trasparente e a vederlo nella sua interezza, e poi a ridurlo in frammenti da riassemblare senza ferire, senza ferirmi.
E faccio i conti con l’istinto tellurico e primordiale di prendere le distanze, di etichettare e omologare, giudicare, assolvere o condannare. Di difendermi, sentirmi migliore. Infine, tornare in superficie a respirare.

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#secondapelle #testolibero insonnia paura Scrittura

Con i piedi insanguinati

In uno dei miei dormiveglia notturni mi sono raccontata alcune storie che sapevo già. A volte ripassare serve. Per esempio a cambiare il finale. A immaginarie scenari diversi, alternativi. C’è sempre una porta che non abbiamo visto, una stanza che non abbiamo ancora abitato, un gioco con cui non abbiamo mai giocato. Vecchie foto che ritraggono, dietro noi da piccoli, parenti sconosciuti, amici di famiglia di cui non abbiamo mai sentito parlare.

Quindi, dicevo, ero in dormiveglia e mi sono raccontata delle storie. La storia di due etichette: “cose da maschi” e “cose da femmine”. Giocare al flipper era da maschi, etichetta azzurra; con le bambole da femmine, al mercato, pure, da femmine, etichetta rosa. Alla mamma e al papà, sei maschio fai il papà, sei femmina fai la mamma. Al dottore, maschio, la femmina era l’infermiera o la paziente. Ai cowboy non ci giocavo mai. Semmai, in casi estremi, facevo il cavallo o la prigioniera Sioux. I soldatini e le macchinine erano da maschi e quindi ringraziavo mille volte se mio fratello mi ci faceva giocare quando restava a corto di amici.
Ho ripassato poi quell’altra storia, quella della bambola appena ricevuta in regalo che ritrovai con i capelli tagliuzzati da un serial killer presente alla festa, e ho cambiato la fine.
Il dormiveglia talvolta è magico.
Finale nuovo. Alla festa del mio ottavo compleanno nessuno ha regalato bambole, orecchini, braccialetti e calzettoni rosa: non ricordo cosa hanno portato gli invitati alla mia finta festa. Ma di sicuro abbiamo fatto mille giochi di società, poi, nascondino per casa. Dopo la torta ci siamo seduti a raccontare storie di fantasmi. E tutti, bambine e bambini, ne abbiamo avuto paura.

Di un’altra storia nel dormiveglia ho cambiato il finale. Una giovane donna sta lavorando per una tv, ha un microfono in mano, fa la sintesi di un evento sportivo. Un uomo le passa accanto e le palpeggia il sedere. Non la conosce, non c’è alcuna intimità, non le ha chiesto il permesso, non si è fermato a scusarsi. Dallo studio il collega della donna ha minimizzato e continuato come se niente fosse. Invece, no.
Dormiveglia magico.
La parte nuova della storia: il collega dallo studio interrompe il programma e dichiara che è successa una cosa grave e spiacevole, che il collegamento finisce lì, che la tv e i suoi dipendenti sono solidali con la giovane collega, che qualcuno dallo studio sta già chiamando la polizia per segnalare l’accaduto, che queste cose non devono più accadere.

Poi credo di essermi addormentata e aver sognato altre storie. Fatte e finite. Un sacco di etichette rosa e azzurro dal mio precedente dormiveglia non so come sono finite qui.
Ci sono due sorellastre a cui viene chiesto di calzare una piccola scarpa di cristallo per dimostrarsi degne di sposare un principe. Una ha l’alluce troppo grosso. Tagliati il dito, dice la madre. Lei si taglia il dito e calza la scarpa. Il sangue fuoriesce a fiotti ed è ben visibile a tutti. Non è degna. Allora tocca alla sorella che però ha il calcagno troppo sporgente. Tagliati un pezzo di calcagno, dice la madre. Lei obbedisce e calza la scarpetta. Ma nemmeno lei risulta degna dell’uomo da sposare.

Appena sveglia voglio cercare un nuovo dormiveglia, la porta che mi è sfuggita, e cambiare questo finale, mi dico nel sonno. Anzi, lo racconto all’uomo che tiene in mano la scarpetta di cristallo. Lui mi guarda basito, poi ritrova la voce e mi apostrofa: ce l’abbiamo già il finale, sappiamo già chi sposerà il principe e tu non puoi farci niente, non puoi salvare nessuno. Le vogliamo belle, a palazzo, umili e obbedienti. Rassegnati e continua pure a dormire. Credo anche che mi abbia chiamata “povera illusa” ma non ci giurerei, stavo per svegliarmi, mi ero già allontanata.

Mi sono svegliata e non sono riuscita più a dormire, né a ritrovare la porta che cercavo, un altro dormiveglia. La storia è rimasta quella, fatta e finita, con l’uomo saccente che regge la scarpetta.
Sono rimasta la stessa anch’io, dopo tutto, sfatta e sfinita.
per un bel pezzo, immobile e impotente sotto le coperte, a fare i conti con le mie porte chiuse e i miei piedi insanguinati.

… vide il sangue che sgorgava sdalla scarpa, sprizzando purpureo sulle calze bianche*.

*J e W. Grimm, Fiabe. Einaudi. Traduzione di C. Bovero, prefazione di G. Cocchiara

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#risvegli #secondapelle paura Racconti Scrittura

Case di bambini

Una casa con un balcone che girava attorno alle stanze. Noi bambini, come sulla giostra, a cavallo delle scope, sembravamo streghe e stregoni. Mio fratello cadde e si fece male. Il sangue sulle piastrelle svelò l’incantesimo, un gioco troppo frenetico da fare su un balcone. Si alzò subito, rise della sua ferita, come i soldati reduci da una battaglia vinta. Io che di magie non mi sono mai occupata, vedendo il sangue piansi e chiamai aiuto. Non è niente, disse mia madre, prendo i cerotti. Eppure restai sgomenta e preoccupata per giorni. Ero già perduta dietro certi piccoli dolori che non passano mai. Ancora torno alle piccole ferite dei bambini, alla casa piena di voci argentine, a incidenti e cerotti rimasti laggiù. Da quelle stanze arriva di continuo l’eco infinita che sa di litigi e canzoncine. E mi pare di essere rimasta da sola ad ascoltare.

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#altrove #secondapelle #testolibero malattia malattia, ansia paura Scrittura

Mille cose che brillano

Da poco più di un mese ogni mattina al risveglio mi passo una mano sul seno destro. È il mio ultimo campo di battaglia, tangibile, di carne e pelle. Ce ne sono stati altri, negli anni, che non si vedono e che non posso toccare. Sono stata operata a dicembre, ma la battaglia è cominciata mesi prima, sotto il sensore ecografico della mia senologa che a un tratto smette di conversare e si avvicina al monitor con l’aria compunta. Qualcosa non la convince, dice che vuole rifarmi l’ecografia con un altro apparecchio. Ci spostiamo in un’altra stanza, mi stendo su un altro lettino, sotto un altro sensore. Lei seria, continua a studiarmi, l’anno scorso andava tutto bene, l’addensamento non c’era. Io non chiedo niente, io so già. Lo so per mia madre, per le donne che vedo nel mio studio e mi raccontano, per le statistiche che sono oracoli, perché ho l’età in cui accadono queste cose a tante di noi. Non dico niente, attendo che lei si decida a dare un responso, il via a una fatica che è già iniziata da quando ha smorzato la sua consueta cordialità e ha assunto quel piglio pensieroso. Continua a leggere su AlPassoCoiTempi