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La partita

12208305_10208144258713705_4756398487949179452_nD’autunno, attorno agli aceri c’è un tappeto di pigmenti caldi che rende l’atmosfera quasi festosa. Una festa parca di colori che virano dal giallo al rosso senza fastidio per gli occhi. Anzi, sembra quasi una consolazione sensoriale in cui la vista, per l’appunto, riposa.
All’uomo che, solitario, si va riempiendo gli occhi di quella meraviglia, pare un luogo fatto apposta per la nostalgia che lo prende ogni tanto; per quei momenti di pigro rimestare fra i ricordi, utili a riprendere le fila della vita.
E com’è quella sua vita strana? Si appresta a rispondersi come di consueto, quando i ragazzi della scuola vicina, usciti in cortile per quel tempo dovuto alla ricreazione, lo distraggono e lo conducono a quando fra i banchi non sapeva ancora cosa sarebbe stato. Vede fra le sbarre del cancello i giochi ruvidi dei maschi, i salti, gli spintoni. Lui non è fra quelli, non lo è mai stato, sta in disparte e li guarda mentre fanno finta di scazzottare per una figurina, una ragazza, una sigaretta fumata di nascosto. Si aggrovigliano fra manate e risa scomposte, le urla arrivano fino alla panchina. Lui non urla, non lo ha mai fatto, resta silenzioso sui gradini del cortile.
Poi la campanella chiama e tutti rientrano rumorosamente in classe. Li vede, svogliati, ammiccare e lamentarsi. Lui si mette in fila, zitto, e torna dentro senza protestare. Era così.

E com’è insomma quella sua vita strana e solitaria? Ha un lavoro sicuro, l’uomo, di quelli che ti mettono davanti alla fine di ogni cosa. Tavolo autoptico, bisturi, l’esalazione della vita ch’è sfuggita, il colore della morte che l’ha soppiantata. Lo chiamano, a volte, anche di domenica. E lui accorre, s’infila camice e guanti, attende direttive dal medico legale. E ancora una vita fuggita via, la morte fra le mani, carni pallide che sembrano finte. Un anziano morto in ospedale, un ragazzo in un incidente, una donna da sola nel suo letto. Misteri che su quel tavolo sembrano carte da gioco scoperte. E’ così straziante, l’ovvietà della morte.
L’uomo non ne parla con nessuno, ché quello non è argomento di conversazione. Fa il suo lavoro meglio che può. E’ preciso, meticoloso, distaccato. I medici lo stimano.
A sera, una volta a casa, cerca la penombra. Si lava le mani mille volte, lascia che l’acqua scorra copiosa, usa il sapone, una spazzola ruvida sui palmi. Poi esce a mangiare nella solita trattoria. Niente carne, per favore. Al più un uovo con le rape. Nel piatto, colori lontani da quelli del giorno.
Non sapeva rispondere quando a scuola gli chiedevano cosa sarebbe diventato. Non è un lavoro che si può prevedere. Ma poi, la vita sceglie. Prima il corso di medicina, salvare la vita, anatomia, anfratti segreti dei corpi come combinazioni da svelare. Salvare la vita.
Poi tutto era andato storto. Aveva smesso. C’era stata l’occasione di un concorso come tecnico di supporto in sala autoptica e per la rinuncia del primo in graduatoria si era ritrovato primo a sua volta. Aveva accettato. E non potendo salvare vite si era trovato a interrogare la morte.

Il cortile della scuola si è riempito di voci un’altra volta. Fanno ginnastica, gli studenti. Muovono agili leve di arti sui fulcri d’ossa e cartilagini. Lui guarda immaginando il lavoro perfetto di capsule articolari e muscoli. Le scapole allontanarsi per la presa di un pallone volato in alto. La spinta sull’avampiede un secondo prima del salto. E corre con loro come non ha mai fatto prima. Corre, restando sulla panchina, a prendere la palla e buttarla al di là della rete, a battere il cinque sul palmo del compagno. Urla con loro e si rammarica di essersi perso l’inizio. Tiene a mente il punteggio e ride, mentre li vede abbracciarsi dopo aver segnato un punto.
Poi, d’improvviso è l’ora di rientrare. Si abbottona il cappotto sul petto, scuote la testa, sorride ripensando alla partita giocata da lontano, e in silenzio, con tutta quella vita negli occhi, si allontana dal tappeto di foglie rosse.

@ giusi d’urso

(immagine dell’autrice)

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Sottrazioni

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La poltrona che ho scelto è di fronte alla reception. L’ho scelta fra un divano rosso e una sua gemella, posizionata di fronte. Mi ha convinto il suo marrone chiaro, mimetico, sul parquet opaco. Per la sua posizione, l’ho scelta, concedendomi un’ampia prospettiva sulla hall.
Sto qui da un po’, con un giornale fra le mani ma non leggo. Accanto, un tavolino con un vaso di fiori freschi, margherite senza profumo. Diffonde nell’aria, invece, un sentore di lavanda sintetico, deodorante ambientale, che a tratti si mescola a quello pungente di limone, appena l’aria è mossa dal via vai dei clienti o dall’apertura delle porte.
C’è questa donnetta china sul manico di uno spazzolone, ha il corpo minuto proiettato in basso, con un eccesso di gravità sul dorso, una pena che non si vede. Solerte, pulisce tra i vasi e negli angoli, la zona antistante l’ascensore. I capelli, raccolti in una cuffietta a righe azzurrine e fitte, sono scuri e lucidi e sulla nuca ripiegano verso l’alto. Strofina con energia il pavimento, a occhi bassi, sollevando le ciglia solo per accennare un saluto ai clienti.
La coppia di turisti che ha appena lasciato la chiave e si è avviata fuori le è passata davanti senza salutare, lei si è fermata per non intralciare, ha sorriso appena e salutato con un cenno della testa. Ho intravisto il taglio degli occhi a mandorla e la bocca piccola, gli angoli rivolti verso il basso, animati dall’istante del sorriso, e poi tornati giù.

Mentre mi ostino senza un motivo a osservarla sono distratto da un tramestio proveniente dalla porta d’ingresso. Rumore di valigie con le ruote, il facchino si dirige prontamente verso i nuovi arrivati, al banco un ragazzone biondo e prestante si prepara al check-in col suo sorriso migliore. La donna appena entrata è magrissima, stretta in un abitino blu che fascia spigoli di scapole e fianchi. Si avvicina alla reception e sussurra il necessario. Ringrazia, procede verso l’ascensore, evitando l’area umida di straccio appena dato.
Il mio sguardo l’accompagna fino alla chiusura delle porte e immagina una modella. Ne ho misurato con occhio severo le proporzioni e me la sono immaginata stretta in un’angoscia di inedia e sacrifici. L’incarto bello di un inferno.
Intanto la piccola donna dello straccio ha terminato il suo lavoro. E per me è l’ora di andare.

Firenze è una città eccessiva. Ha quell’abbondanza di cose belle che finiscono per stordirti e lasciarti sfinito e insoddisfatto in fondo alle giornate. Ho scelto di venirci da solo, questa volta, ho bisogno di vagare, perdermi in questa folla delirante con le mappe in una mano e il cellulare nell’altra. Torno a casa fra qualche giorno, devo una risposta. Lei vuole andare via. Io vorrei che rimanesse. Pensaci, mi ha detto, le cose iniziano e finiscono, anche le più belle. Porta via con sé nostra figlia. La sottrae al mio sguardo di padre in adorazione, alla mia gelosia malcelata verso il suo corpo in boccio. Anche il resto di noi due insieme, porta via. Svuota la casa di una complicità di sguardi e di lenzuola. Mi deruba dell’intimità del nostro letto. Cose di cui ho ancora un bisogno scellerato.
Vago per tutto il giorno, guardo molte cose senza vedere niente. Rientro che le ombre si sono già allungate e la poltrona mi attende come un cane.

C’è un che di agitato alla reception. Il turno è cambiato e al banco adesso c’è un signore brizzolato e arcigno. Ha un movimento brusco nelle mani e una rigidità di toni nella voce. Davanti, la modella, fasciata nel suo abitino blu, tenta di spiegare un malinteso. Ma no, dice, non intendevo portar via nulla, avrei restituito ogni cosa.
L’uomo è diffidente, dagli angoli della bocca pencola un’accusa silenziosa ed eloquente. Lei continua, gesticola, alza il tono della voce ma non è pretenziosa, anzi, mi arriva un suono come di lamentazione, una cantilena di scuse e giustificazioni. Chiedo scusa, dice, non so come sia accaduto, è un istinto senza cattiveria quello di sottrarre oggetti nei luoghi in cui mi trovo.
Dall’angolo estremo della hall arriva nel mio capo visivo la piccola donna dello straccio. Si dirige al banco e con un inchino chiede a bassa voce di poter parlare. L’uomo le fa un cenno per darle la parola e lei con fare timido e prudente dice che anche sua sorella soffre di quel male così strano e che, mentre sottrae oggetti dai luoghi che attraversa, è in evidente stato di trance, una sorta d’innocente estraniamento.
Intanto l’uomo, ha svuotato sul banco il contenuto del beauty-case dell’ospite. La donna piccola sorride e continua a parlare piano, con una calma che diffonde fino a me. Mette pace.
L’altra la guarda e ringrazia, una mano scarna e ben curata si allunga sulla schiena curva e la voce ancora declina gratitudine. L’uomo si acquieta, ostenta un gesto di magnanimità o finta comprensione e congeda la modella.

Sono improvvisamente stanco. Mi rendo conto di avere le mani sudate, incollate alla pelle della poltrona marrone e di aver segretamente combattuto per qualcosa. Per le cose incontrovertibili del mondo. Per il parquet pulito, per le sottrazioni d’esistenza, per ciò che inizia e che finisce e che, in un modo o nell’altro, a un certo punto va lasciato andare.

© giusi d’urso

(L’immagine è di proprietà dell’autrice)