Dopo pranzo andò a gustare il caffè sul piccolo terrazzo della cucina. Aveva preso quell’abitudine da poco, solo da qualche settimana, scoprendo che l’autunno colorava di rosso e arancio gli alberi e le aiuole sottostanti. Un tappeto di colori caldi, accogliente come un salotto. Una nota romantica cui non aveva mai fatto caso, pur vivendo in quella casa da oltre dieci anni.
Donna in carriera. Fermarsi a respirare era stato un lusso, dormire una perdita di tempo. I figli, no, fagocitano energie. L’amore, sì, se arriva, ma ognuno a casa sua. Direzione convinta, legittima scelta. Nessun ripensamento, nessun rimpianto, molti viaggi e altrettanti letti disfatti. Valigia a portata di mano, si parte, si lavora, si torna, si riparte. Era la sua vita, costruita con la tenacia degli uccelli migratori e l’ambizione del figlio promettente di un re. Ultimamente, però, una nuova sensazione si era insinuata sotto la pelle, densa e limacciosa. Una sorta di fango emotivo diffuso in tutto il corpo da una costellazione sentimentale sconosciuta, arrivata, inattesa e ineluttabile, con l’età di mezzo.
Il caffè aveva un sapore diverso sorseggiato lì, a quel terrazzo, osservatorio improvvisato di quell’autunno nuovo.
Ogni giorno, a quell’ora, la panchina accoglieva un duo mite e lento. Un’anziana dai capelli completamente bianchi e il passo incerto e una ragazza bionda e snella che le si rivolgeva in un italiano incerto ma comprensibile. Si sedevano, dopo che lei, la giovane, aveva tolto le foglie arancioni e gialle dall’aiuola, facendole volare dietro la panchina. Un ritorno di natura alla natura che risparmiava alle foglie il contatto scabro sull’asfalto, segno antropico di un progresso inarrestabile. Il volo sospinto dalla mano, che sembrava di uccelli tropicali, faceva planare le foglie sulle altre già cadute dai larici variopinti. Ogni volta, quell’interruzione d’immobilità, smuoveva altri voli, come di farfalle e di altro fogliame che improvvisava brevi moti fruscianti, quasi a smascherare l’insospettabile vitalità di una stagione di passaggio. La donna al terrazzo, sorseggiando il caffè, osservava con l’idea di un sorriso malinconico che da tutta la vita attendeva di concedersi.
Le tornò in mente quell’amore ruvido d’oltreoceano. Un’attrazione fisica incontenibile che, a distanza di anni, somigliava a un regalo ben incartato e irresistibile. Thomas. Ingegnere rampante. Sportivo e piacente. Ma non era stato quello a fare breccia, no. Era stato invece quel silenzio pieno di respiri incalzanti e promesse indefinite, il suo viso a pochissima distanza, l’alito col ricordo di una sigaretta assaggiata e poi buttata via e la barba incolta e brizzolata. Quella vicinanza così irrimediabilmente eccitante, quella minuscola distanza fra le loro labbra, dentro la quale si erano arrotolate parole mai dette eppure indubbiamente udite; nella quale erano evaporati buoni propositi e materializzati progetti leggeri e scintillanti come lustrini. Lui sposato. Padre di due figli. Lei, niente. Prigioniera della sua libertà.
La donna anziana tirò fuori dalla borsa un giornale e una matita. Quella giovane, uno scialle e glielo accomodò sulle spalle mormorando qualcosa come: se hai freddo dimmelo, Emma, tornare a casa noi due. Emma dai capelli bianchi prese a sfogliare il giornale e l’altra ad attendere qualcosa che sembrava scontato e familiare.
Intanto, la scuola oltre i giardini, regalava grida acerbe di bambini all’aria quasi satura dell’odore di sughi sui fornelli. Se chiudeva gli occhi, la donna al terrazzo, sentiva un suono unico di foglie e grida. Concentrandosi però, anche una scala al pianoforte, ripetuta con tenacia esasperante e, forse, persino il suono leggero delle pagine che Emma sfogliava con calma sotto gli occhi della sua giovane amica. Erano sempre stati lì quei suoni e non li aveva mai sentiti? Oppure nascevano con lo stupore nuovo di questa epifania inconsapevolmente attesa? Un altro sorso di caffè e ancora una tessera apposta al puzzle di quel sorriso in costruzione.
Una corsa in metrò, per dirgli che sarebbe stata ancora e sempre ciò che lui voleva, ché non c’era altro progetto, nessun rimpianto, nemmeno un dubbio, nessun ostacolo. Piuttosto, la ricerca di un antidoto a quella vorticosa parodia della vita, spesa fra aeroporti e alberghi. Corse per raggiungerlo a una conferenza, senza preavviso, mentre si chiedeva se fosse o meno amore. Entrò in silenzio nell’auditorium, arginando l’affanno del respiro e del cuore con la regola di fredda compostezza che aveva acquisito negli anni di disciplina alla carriera. Thomas relazionava, alto, elegante e a suo agio, la cuffia con microfono e auricolare gli concedeva libertà di movimento. Il busto appena ruotato per indicare l’andamento di un grafico sulla resistenza meccanica di certi materiali al rischio sismico. La voce rocciosa, a tratti calda e profonda, con quegli insospettabili bassi, ottave scoscese e aspre, che le ricordavano i sussurri e l’intimità a letto dopo il sesso. Si chiese ancora se fosse amore, mentre, in attesa che l’uomo terminasse il suo intervento, si lasciava invadere da un’ebbrezza che alleggeriva i pensieri. L’avrebbe raggiunto per dirgli che era pronta a restare tutte le volte che avrebbe avuto voglia di lei. Se lo sarebbe fatto bastare. Avrebbe lasciato l’Italia definitivamente. Senza pretesa alcuna. E nemmeno un dolore.
Emma trovò la pagina e incoraggiò la ragazza a seguirla. Cominciò a leggere, uno orizzontale, nome della nota cappella del giudizio universale, dai, lo abbiamo già trovato in un altro cruciverba, se non ti ricordi, vediamo il tre verticale. La ragazza, accento est europeo, sfogliò veloce un piccolo notes fitto di parole a penna blu e di disegni con frecce e inserti evidenziati in giallo. Poi indicò titubante le definizioni delle parole più brevi, articoli, aggettivi possessivi, preposizioni semplici e complesse, di più il fa del, a più la fa alla. La donna anziana sorrise e la incoraggiò, vecchia maestra mai stanca, coraggio, andiamo avanti che sei bravissima. Incrociarono parole e sguardi per un po’. La matita era un ago che rammendava strappi, riconciliava il tempo degli addii e delle lontananze. Il cruciverba, una scacchiera su cui incastrare un futuro piccolo e sgomento. Giochiamo, Emma, imparo a stare nel tuo mondo.
Dal terrazzo, un sorso ancora di caffè e di inattesa commozione davanti a quella scena incastonata nell’autunno sorprendentemente mite. Desiderò il sorriso sotto le rughe ai lati della bocca.
Thomas terminò la relazione, prese gli applausi del pubblico, numeroso e visibilmente impressionato dall’intervento. Poi si diresse giù dal palco, verso la sua poltrona. Una giovane donna gli andò incontro. Non era la donna della foto di famiglia, quella madre bella e morbida con i due figli in braccio che guardava nell’obiettivo della macchina fotografica. Era poco più che una ragazza. Un progetto nuovo, o forse una nuova assenza di programmi a breve e lungo termine. Un altro letto caldo. Altri sussurri, altre parole. Oppure, le stesse che lei aveva annotato sul telefono per non dimenticarle.
Sentì le gambe allentare la tensione della postura eretta e si accasciò su una poltrona in ultima fila, invecchiata di una fanciullesca lisa, incosciente, portata all’estremo dalla convinzione di poter essere per sempre ciò che lui voleva. Il volo di rientro la riportò in una dimensione parca, insieme a un senso inatteso di leggerezza.
Finì il caffè e si concesse qualche altro minuto, tenendo la tazzina ancora tiepida fra i palmi delle mani. Emma e la giovane straniera erano ancora lì, la loro conversazione coperta dai giochi rumorosi dei bimbi in cortile. Le foglie ai piedi dei larici accennarono un breve mulinello. Si era alzato un po’ di vento. Emma porse matita e cruciverba alla ragazza e annodò le punte dello scialle sul petto. Ancora una pagina, ancora un incrocio e l’attesa di un ultima risposta. Brava, risposta esatta, cruciverba terminato. Il labiale fu chiaro anche da lontano. I bambini rientrarono e la ragazza prese Emma sotto braccio per rientrare.
La donna del terrazzo socchiuse gli occhi, provò a pensare alla sua vita come a una parola, un cinque orizzontale, ma ci stava larga. Riaprì gli occhi, buttò fuori la tristezza in un sospiro e non sentì dolore. Ché in fondo perdere a volte è l’unico modo per capire. E rientrando in casa, sorrise.
© giusi d’urso