Ci sono nata, con questo tremolio negli occhi. Che poi, crescendo, mi è diventato familiare, quasi caro, mi viene da dire. Adesso, nella vita adulta, è come un paio di scarpe comode a cui non si può rinunciare.
Col nistagmo non si possono fare alcune cose, come prendere la mira e tutto quello che richiede la prontezza della messa a fuoco. C’è bisogno di tempo: fissare un punto preciso sopportando la nausea, e aspettare qualche secondo, a volte un po’ di più, perché tutto si definisca e si posizioni, i contorni si fermino, la visuale risulti chiara.
Sono a questa finestra da un paio d’ore. Cosa sono per me le ore, in fondo, se non ho altro da fare che rimescolare una minestra, rifare un letto, lavare un cesso? È solo il tempo che passa senza farmi male, penso, e gli sono grata. Sono grata al vuoto del tempo, a questa finestra e alla visuale sul palazzo di fronte. La mia signora è andata al lavoro, sono usciti tutti, io finisco e poi chiudo porte e finestre, inserisco l’allarme prima di andare. Ho le chiavi da anni, sono pagata a ore, nessuno mi controlla, qui sono una di famiglia, ma la mia famiglia è altrove.
La finestra di fronte ha la tenda scostata, un’altra me sta mescolando la minestra, rifacendo i letti, lavando cessi. E io che ho già finito aspetto che si affacci e si specchi. Che ci specchiamo a vicenda.

Sono passati gli anni difficili, penso mentre cerco da qualche parte la soddisfazione, quando erano piani di scale, uffici, corridoi e gabinetti d’ospedale. Sedie e tavoli senza nomi, non si faceva in tempo a imparare nomi e immaginare storie che tutto cambiava, scemava in altri nomi, altre storie. A volte poteva capitare di carpire una conversazione, ricamarci su per qualche minuto, un’ora al massimo. Ma erano narrazioni fittizie, evaporavano come l’alcol se si lascia la bottiglia senza tappo.
In questa casa invece c’è il tempo per cose durature. Intanto, quello di fare l’abitudine ai piccoli vizi degli altri, che sono sempre uguali, come i tic. I tic sono rassicuranti, sai cosa aspettarti. L’accappatoio umido sul letto, le scarpe dietro la porta del bagno, la tazzina del caffè sul comodino. Libri, una quantità incredibile di libri, sparsi per casa, in ogni angolo, su ogni ripiano; piante grasse lasciate morire in stanze buie e asciutte. C’è la segreteria telefonica come nei film americani, le tre voci che si susseguono in frasi costruite ad hoc. Quella di lei è la più decisa, la più falsa, a lui la voce trema come a me lo sguardo, l’adolescente fa lo scemo e li prende un po’ in giro.
La tenda di fronte sta svolazzando, l’altra me ha aperto la finestra, ma non si è ancora affacciata. La immagino in cucina, a finire la pulizia di ripiani e sportelli, forse del lampadario, non so, io la faccio una volta al mese. I vetri la mia signora me li fa pulire ogni due settimane; se intanto ha piovuto, mi chiede di farli una volta in più. A casa mia i vetri erano sempre sporchi, come se non ci fossero; diventavano opachi con la pioggia, le gelate, il riverbero del sole. Nessuno li puliva mai, mia madre era sempre fuori, dietro i vetri degli altri, per farmi studiare. La mia signora, invece, ha la fissa della trasparenza.
Ieri pulendo un mobiletto del ripostiglio ho trovato un arricciacapelli ancora confezionato. Stava in fondo, insieme ad altre cose dimenticate, forse mai utilizzate. Ho aperto la confezione, dalla scatola è arrivato l’odore di oggetti nuovi e mi è sembrato di ricevere un regalo. Ho pensato che se prendo l’arricciacapelli per un po’ nessuno se ne accorgerà. La mia signora ha il capello mosso naturale, l’adolescente non ha nessun interesse per un oggetto anni ’80 come questo. Ho infilato l’arricciacapelli nella mia borsa, l’ho usato la sera dopo la doccia. Funziona. lo rimetterò al suo posto la prossima settimana.
Anch’io ho almeno un tic e riguarda i miei capelli, mi guardo le punte e tolgo quelle biforcate per secchezza o invecchiamento. Certe volte mi estraneo con questo esercizio simile allo spulciarsi delle scimmie che non è bello da vedere ma mi rilassa. Non lo faccio mentre sono qui, dove corro il rischio che qualche capello vada a finire sui tappeti appena ripuliti o su qualche ripiano appena spolverato. Mi ci metto a casa, sul divanetto davanti alla tv, mentre mangio la mia cena riscaldata. Ma se li arriccio con l’arnese che ha l’odore di un regalo, le punte restano interne al ricciolo e non le vedo.
Nella casa di fronte hanno appena aperto tutte le finestre. Vedo l’altra me affaccendarsi ancora di gran lena. Sorrido all’idea di una gara di faccende fra me e lei: io ho finito da un’ora buona e lei è ancora lì con l’affanno. Se solo si affacciasse, le racconterei delle sei rampe di scale che faccio ogni mattina evitando l’ascensore, perché così, diceva mia madre, si capisce subito che sei una a cui non fa paura faticare. E poi, dell’arricciacapelli preso in prestito, che nasconde le doppie punte e che funziona anche sui capelli ispidi se si usa un po’ di balsamo. Le chiederei se anche lei ha trovato una scatola da scartare. Potremmo essere amiche, amiche intime, quasi sorelle, se solo si affacciasse. Potremmo parlare del paese da cui veniamo, che forse è lo stesso, o forse no, ma tanto per i padroni di casa è tutto Romania, Ucraina, Russia oppure semplicemente est. Potremmo raccontarci di madri anziane e figli piccoli lasciati laggiù.
Ha spalancato le finestra. Mi pare giovanissima, forse non ha lasciato nessun figlio nell’est, ma non fa niente, potrei raccontarle dei miei e lei, forse, di sua madre. Alzo una mano per farmi notare, la finestra sta ancora vibrando nei miei occhi e i suoi lineamenti si sono sdoppiati, i contorni oscillano in linea verticale.
Mentre aspetto che tutto si fermi vedo la sua felpa beige e una fascia che le tiene su i capelli chiari e mossi, la fronte alta. Finalmente metto a fuoco. Adesso la posso vedere meglio. Lei però non ha risposto al mio saluto, forse non mi ha visto, forse non mi ha guardato. Allora riprovo, voglio che mi veda e che mi parli. Ma, niente, sembra affaccendata a spolverare gli infissi, a togliere la merda dei piccioni dal davanzale. Quello sì che è un lavoro odioso, tutta quella roba asciutta da ammorbidire con saponata calda e poi togliere stando attenti che nulla coli giù. Che qui la gente protesta per il guano sui davanzali di fronte, ma anche per la saponata che gocciola nel cortile. Sbagli sempre.
Vedi, amica del palazzo di fronte, di quante cose potremmo parlare. Ma tu non mi guardi, non mi vedi.
Lei non mi vede, forse come me ha un difetto visivo, oppure ha lo stipendio fisso, non è pagata a ore, e allora la capisco: prima finisce e prima torna a casa, non perde tempo a conversare. E se ha fretta di tornare a casa vuol dire che c’è qualcuno che l’aspetta. Oh, amica, sono felice per te. Guardami solo per un attimo che te lo dico a voce: è una gran fortuna avere qualcuno che ti aspetta. Mi sbraccio di nuovo, mi sporgo un po’ di più e saluto agitando un fazzoletto, come si faceva dalle navi che partivano per lunghi viaggi e per posti lontanissimi. Ma lei continua a lavorare senza neanche alzare lo sguardo.
Allora penso che se mi siedo sul davanzale, forse, ho una speranza. Mentre mi sollevo ho il pensiero dell’oggetto sottratto e della sua restituzione. Ma c’è questa cosa più importante adesso, questa dell’essere vista dalla mia amica, sono sicura che la mia signora capirà.
Mi sporgo, dunque, e mi arriva una voce dal palazzo di fronte. Mi sono issata sulle mani per salire meglio e adesso do le spalle alla mia me. Se quella è la sua voce, sembra allarmata; ma forse è solo il tono alto e robusto di noi donne dell’est. Intanto mi sono seduta sul davanzale, le gambe penzolano nell’aria del salotto pulitissimo. Per un attimo penso alla soddisfazione di aver fatto molto bene il mio lavoro, mentre i bordi del divano vibrano e lentamente prendono il loro posto nel mio campo visivo.
Adesso arrivo, mi verrebbe da rispondere a lei che urla, adesso mi faccio vedere. Ma meglio fare che dire, e basta poco, una minima oscillazione all’indietro.
Il cielo, col nistagmo, è sempre il cielo. Vorrei salutare l’altra me alla finestra, ma sento le braccia pesantissime e non voglio rinunciare a questa sensazione di abbandono. Nessuna vibrazione, mentre guardo l’azzurro che mi sovrasta; nessuna sfocatura, mentre me ne allontano. Che meraviglia e che sorpresa vederci per una volta così chiaro.