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Sembrava

Sembrava stranezza. Quando la sgridavano apriva la cartella e cominciava a piangerci dentro. Non avevo mai visto una bambina piangere dentro una cartella. Ne avevo vista una infilare un dito in una presa, un’altra fare a botte per strada, un’altra ancora imbambolarsi alla finestra. E io stessa, a volte, avevo fatto cose strane, infilare la testa dentro una ringhiera, mangiare le foglie di ortica, contare formiche che uscivano in fila dal muro. Piangere dentro una cartella. Dai. Che razza di comportamento. Ma quella bambina smunta e piena di capelli, naso affilato e bocca tirata verso il basso, era diversa in tutto. Nelle parole che gocciolavano appena dalle labbra. Nella camminata da equilibrista scarso. Chissà se anche nei pensieri. Chissà se anche nei sogni. Chissà. Cosa teneva nella cartella. Quaderni accartocciati e scoloriti da un’umidità segreta. Forse briciole impastate. Un piccolo universo di organiche putrefazioni. Cose che nessuno capiva, che non mostrava a nessuno. Sale emotivo cristallizzato nell’antro buio di una cartella. E nessuno parlava, nessuno consolava, né chiedeva. E niente. Così, a volte, le vite.

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“La chef insonne” su Crack Rivista letteraria

Buona lettura e buon appetito con il mio racconto inedito su Crack!

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Senza sapere niente

silhouette-of-a-person-4462784 (2)– Avrà freddo lì fuori?
– Ma no, secondo me è abituata, viene dall’Ucraina.
– Davvero?
– Sì, mi ha detto Giorgio che è nata a Kiev, ma non so altro.
– Secondo te quanti anni ha?
– Che ne so? Non l’ho mica guardata, mi mette inquietudine.

I due colleghi parlano di una una giovane donna dai capelli cortissimi e i denti marci che da qualche giorno rimane per ore seduta sul gradino dell’ingresso della Scuola Medica a fumare la pipa e sfogliare articoli scientifici, sia che piova o tiri vento. Non si muove da lì per ore, concentratissima sulla sua attività, fino a quando non ha terminato la lettura o non è arrivato il momento di svuotare la pipa e riempirla di tabacco nuovo. Si è attrezzata con un sacchetto di plastica agganciato alla ringhiera per non sporcare con i suoi rifiuti. Ogni tanto, mentre fuma sorseggia una coca cola. La lattina vuota resta accanto a lei per ospitare la cicca di qualche sigaretta, nel caso le venga voglia di fumare altro. Poi, anche quel rifiuto viene infilato nella busta di plastica.

Una notte di aprile, Anitchka, dormiva nella sua stanza a un passo dai suoi genitori. Suo fratello, nella culla di fianco al letto matrimoniale, era nato da poco e lei da sei anni. Quella notte un’ombra s’insinuò nella sua casa invadendo pareti, coperte, alimenti, vestiti, come accade con l’acqua durante un’alluvione. 

I due giovani alla finestra al primo piano, intenti a godersi la loro unica sigaretta del mattino, stanno ricostruendo, con le poche informazioni reperite e molta fantasia, la vita della donna dello sputo. Così è stata battezzata dai medici e dagli studenti della Scuola, per quel tic strano che le fa sputacchiare di qua e di là il tabacco che ogni tanto mastica. Non sanno nulla in realtà, ma quella donna è così strana, come la sua improvvisa comparsa nei paraggi della Scuola, che ognuno mostra la necessità impellente di  cucirle addosso pezzi di vita più o meno probabili. Il solo fatto di sedere su quei gradini pare renda necessaria l’esternazione di una qualche notizia. Così qualcuno ha raccontato pochi giorni fa di averla sentita sussurrare qualcosa in faccia a un gruppo di studenti in quella sua lingua dura dai suoni stretti come vicoli; qualcun altro ha arricchito il racconto col dettaglio della postura e della camminata mascolina. Altri hanno notato l’abbigliamento piuttosto sobrio e in particolare il giaccone di almeno due taglie più grande e di colore scuro. I capelli di un biondo pagliericcio, cortissimi e divisi  da una scriminatura decisa e domata dal gel. A guardarla bene, ha l’aspetto di un soldato, un reduce, minuto, un po’ perso nella sua divisa troppo larga, ma con l’espressione straniata di chi è stato a lungo in trincea.
Da qualche giorno, quindi, questa donna praticamente sconosciuta, se ne sta a prendersi le intemperie seduta su quel gradino. Ogni volta che qualcuno le passa accanto si gira verso il malcapitato, digrigna i denti marci e lancia uno sputo di tabacco. Il gesto, ma solo quello, ricorda  un po’ quei vecchi mandriani delle pianure americane dei secoli scorsi. Si resta inebetiti, a dire il vero, e non si sa se ridere, lasciar perdere o infuriarsi. Il suo sguardo è così duro e ottuso da scoraggiare alla fine ogni tipo di reazione diretta.

Alla centrale nessuno sapeva di Anitchka, nessuno poteva immaginare che di lì a poche ore sarebbe rimasta sola. Tra la centrale e Anitchka e oltre ancora la sua casa, migliaia di bambini, di adulti, di vecchi si sarebbero disintegrati senza mai sapere niente gli uni degli altri. Il triste destino delle morti imprevedibili e collettive. Nessuno ha il tempo di essere avvisato e di avvisare. Nessuna consolazione fra parenti, amici, semplici conoscenti o perfetti sconosciuti. Senza sapere nulla si sparisce.

– Chissà com’è arrivata fino a qui.
– Pare abbia una borsa di studio al dipartimento di psicologia clinica.
– Ma capisce l’italiano, secondo te?
– Non credo, legge l’inglese, parla sempre nella sua lingua, l’hai sentita anche tu l’altro giorno, quando ci ha sputato il suo tabacco sulle scarpe e ha blaterato qualcosa da quei denti marci.
– Ma tutti qui vengono? Tutti noi li troviamo?
Sorridono, sarcastici. La pausa è terminata, danno ancora un’occhiata furtiva alla donna, chiudono la finestra e tornano al lavoro.

Anitchka continua a leggere fumando la pipa. Ogni tanto la tiene sospesa fra le labbra e si frega le mani, prima di girare la pagina, senza perdere la posizione iniziale, scuotendosi solo un poco e per qualche secondo.
A un tratto, appoggia i fogli sulle gambe, tira fuori dalla tasca del giaccone un notes, una penna e scrive. Torna a leggere, in quella sua postura composta e rigida, e in breve tempo arriva all’ultima frase dell’ultima pagina. Svuota la pipa, annoda il sacchetto pieno di tabacco tiepido e lo ripone in tasca. Si abbottona bene fino al collo e si avvia all’uscita del cortile della Scuola Medica col solito passo da reduce.

Il 26 aprile 1986 a Chernobyl finì il mondo, ma si seppe qualche giorno dopo.

© giusi d’urso

Foto di Antonio Dillard

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#secondapelle Senza categoria

Il treno

Placeholder ImageLe undici di un sabato sera. In attesa del treno ha preso un giornale e della liquirizia. Conosce i gusti di sua madre, la donna sul binario nel suo largo cappotto scuro. L’anno scorso la taglia era giusta e suo padre non era così alto e robusto accanto a lei, né aveva occhiaie così profonde e labbra piegate in basso da un grumo di dolore appeso.
Il treno è stato annunciato. Ale se ne sta a un passo dai suoi. La madre si avvicina per il resoconto su pietanze pronte da scaldare. Torneranno l’indomani. La terapia la mattina, in un posto in cui è sempre lunedì anche di domenica, il tempo per parlare con i dottori che si faranno attendere, in serata il treno del ritorno.
Ventitré e zero cinque. Il treno parte con quel rumore che ad Ale stride in un posto che ignorava di avere fino a un anno fa, quando sua madre si è ammalata. Faccenda seria, terapie pesanti che sembrano funzionare, poi il male attacca di nuovo e quasi la finisce. Questo è il viaggio delle cure estreme e delle speranze che sono sempre le ultime a capire.
Ale rientra e raggiunge il gruppo. Andiamo a ballare e poi a casa mia, sussurra all’orecchio di Anna, bella da perdere la testa. La techno spacca, lui ha bisogno di bere per non vedere il viso smunto di sua madre al finestrino. Un bicchiere, una pasticca, solo stasera. Alle tre lui e Anna sono a casa. La spoglia nell’ingresso, una mano fra le gambe. Fanno l’amore contro la porta, lei gli chiede di fare piano, lui spinge con forza e le viene dentro. Stasera è così. Sono colpevole, signor giudice, stasera ho voglia di fottere la vita. Nessuna pietà per questo figlio ingrato che succhia energie dal dolore altrui.
Al mattino è inquieto, il sonno è lontano, il telefono spento. Fa freddo, vanno al mare, Ale corre a piedi scalzi nell’acqua gelata e Anna lo aspetta intirizzita sulla spiaggia. Lui la guarda, livido: è bella anche la domenica mattina senza trucco.
Vagano per la città senza progetti. Si fermano davanti a un tatoo aperto, entrano, lui vuole un falco sul braccio. Lo incanta la fierezza delle ali che tagliano l’aria notturna. Il dolore è sopportabile. Chiude gli occhi e rivede i lividi sul collo, sull’addome, sulle braccia di sua madre: un tradimento tatuato ovunque.
Anna dopo lo abbraccia evitando la zona del falco: ha ceduto parte di lui a un rapace. Cosa non si fa per amore. Camminano e si baciano in quella città che ha già consumato il tempo fino al pomeriggio. C’è ancora luce, potrebbero partire e non tornare più. Lei propone un panino e un giro per negozi, è quasi Natale, facciamo acquisti, dice garrula. Alle luci feroci del grande magazzino lei ammira i guanti di pelle che non ha mai avuto. Ale li infila in tasca. Sei matto? Ridono. Poi un bracciale di cuoio, un rossetto, un foulard. Ma che ti prende, non si può, non si fa. Lui non ascolta, la tira verso l’uscita col cuore a mille. Oltre la soglia, nessun allarme, nessun al ladro. Liberi. Girano veloci l’angolo di corsa ridendo come bambini.
È già buio. Si salutano davanti a un portone accostato.
Ale cammina a lungo, solo e silenzioso, senza fame né sete, solo l’attesa del ritorno. Legge i messaggi di suo padre.
Ieri: arrivati.
Oggi: mamma è in terapia. Dicono che non c’è più tempo.
Corre senza sapere quando ha cominciato. L’aria è fredda, il falco pulsa sotto il piumino, il fiato brucia nel petto. È sul binario ma il treno tarda. Non ci si può fidare dei treni, fai un programma e te lo mandano a puttane.
Eccolo fermarsi davanti a lui col solito fragore. Ale scorge i suoi tra la folla in discesa e in quel momento vorrebbe un silenzio di pietà per quel ritorno e l’esiguo tempo che rimane.
È mezzanotte. La gente si accalca e non fa che vociare, viva, sullo stridore del treno che lento riparte.

 

© giusi d’urso

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#risvegli #secondapelle Senza categoria

Volare

IMG_7868Da ragazzina ero così minuta e leggera che il vento forte mi portava via. Come quel giorno in cui, all’uscita di scuola, lungo la strada del ritorno, ero presa da pensieri pesanti e zavorre di responsabilità fuori posto, fuori tempo. Minuti intensi di cammino quotidiano, percorso due volte al giorno, avanti e indietro, in cui la mia mente acerba toglieva attenzione a dispute amorose e compiti di scuola per assaggi precoci di amarezza.
Ebbene, quel giorno tirava un vento così forte che si stentava a credere fosse naturale. Mi sentii abbracciare alle spalle, zainetto compreso, e sollevare giusto il tempo di un piccolo sgomento, per recuperare subito dopo il contatto sicuro col terreno e con i pensieri del ritorno a casa. Mi guardai intorno: c’erano testimoni della disobbedienza del mio corpo alle leggi della gravità? Non c’era nessuno. Sorrisi del fatto che a raccontarlo non mi avrebbero creduto e tenni per me quel senso di fulminea esaltazione: cuore pesante e corpo leggero. Ero stata capace di volare. Ancora, a volte, mi riesce.

© giusi d’urso

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#risvegli #secondapelle Scrittura Senza categoria

L’albero

img_1128Un giorno, vidi un ragazzo salire su un grande albero. Una pianta bella e maestosa, con grandi rami e tronco possente, di cui s’immaginano radici robuste e pervicaci sondare le viscere misteriose del suolo. A guardarlo da lontano, l’albero sembrava immobile e perfetto. Da vicino, superando quella vertigine che alzando gli occhi ci fa esperire il baratro del cielo, la vita, con la sua finitezza e il suo tempo, mi apparve com’era. Il tronco, a tratti, era scorticato. I rami avevano trovato soluzioni alternative, forse alla siccità e all’arsura, assumendo pose estreme. Un corpo gigantesco, popolato da comunità animali varie e laboriose. Dagli insetti agli uccelli (e forse anche qualche scoiattolo), era un movimento continuo e brulicante tra le fronde rigogliose. Lunghe file indiane di formiche indaffarate percorrevano verticalmente la corteccia, con la stessa rapidità e disciplina in entrambi i sensi, scomparendo dalla mia vista, dentro tunnel naturali disseminati lungo il tronco, per poi riemergere in un punto distante dal mio sguardo.
Vidi, quel giorno, un ragazzo salire agile su quell’albero. I piedi, dopo il primo slancio convinto da terra, penzolarono un attimo nel vuoto, per poi ritrovare appigli nelle prime intersezioni dei rami più bassi. Lo vidi cercare un nuovo baricentro in alto, lontano dalla certezza del suolo, sfuggendo alla disciplina della gravità, con l’ambizione della salita e il sogno segreto del volo. Cavalcioni sul ramo più possente, non guardò mai in basso, ma verso le fronde alte, invidiando, forse, i sussurri delle foglie e i guizzi degli uccelli.
D’improvviso cominciò a piovere e corsi a cercare un riparo. Di sicuro scese anche lui, subito dopo. Tornando lì dopo la pioggia, infatti, non lo ritrovai. Sentii però, in attesa nell’aria, la segreta ambizione di procedere oltre. Ne presi in prestito un’inezia e ancora gliene sono grata.

© giusi d’urso

 

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#capoverso #secondapelle Scrittura Senza categoria

Mi piacciono i colori

img_3159.jpgMi piacciono le persone concrete e le giornate con qualche novità.
I progetti che mettono di buonumore e il rumore di scarpe sulla strada.
Mi piacciono le maestre autoironiche,
i ragionieri romantici, i cammini difficili da fare in compagnia.
Più siamo diversi e meglio è.
Gli ombrelli appoggiati a sgocciolare, i punti cardinali, gli scivoli lucidi dei giardinetti quando piove.
Mi piacciono i libri sconosciuti e quelli noti a tutti, il sapore che lasciano in bocca le primizie,
le foderine trasparenti dei quaderni di scuola, il piglio convinto degli educatori e il cuore generoso e schivo dei saggi.
Mi piacciono le mani rugose dei vecchi, la forma imprevedibile delle nuvole.
La convinzione di chi litiga e la mitezza di chi risponde col sorriso.
Mi piacciono i minuti dell’attesa davanti alla scuola e il viso acerbo e affamato degli adolescenti.
Ma più di tutto, mi piacciono i colori e il privilegio di vederli tutti.
Più siamo diversi e meglio è.

 

© giusi d’urso