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ho letto un libro

Venezia, città dell’assenza

Ieri sera, anzi stanotte, ho terminato la lettura de “Il peso dell’assenza“, romanzo di Gianluigi Bodi, in uscita il 26 aprile per Les Flâneurs Edizioni. Ho avuto l’occasione, il dono direi, di leggere questa storia prima della pubblicazione e mi sono subito resa conto che dovevo abbandonare la mia consueta postura di lettrice vorace. Pur trattandosi di un romanzo non particolarmente corposo, quindi, mi sono concessa un tempo di lettura lento, e anche ieri sera, come ho fatto sin dalla prima pagina letta, ho atteso che tutti dormissero e che la casa fosse immersa nel silenzio.
Ecco qualche riflessione su questo libro che spero abbia il successo che merita.

Qualche accenno alla trama. Il protagonista del romanzo, che è anche la voce narrante, cerca di ricostruire una storia mentre si aggira per Venezia in preda a un’immensa nostalgia per Silvia, la donna che ha amato. Ma i suoi ricordi, procedendo nella narrazione, diventano tessere difficili da collocare. Così la vita passata sembra un puzzle impossibile, la cui ricostruzione è resa ancora più caotica e dolorosa dalla comparsa improvvisa di un personaggio molto particolare: un clown di nome Barrante. Ogni volta che Barrante appare accadono cose terrificanti, Venezia subisce terribili trasformazioni; le calli, le piazze, i campanili e i ponti esplodono e riducono in mille pezzi i paesaggi cari e familiari al protagonista. I cocci rimasti non restituiscono alcuna memoria, anzi la devastano, la destrutturano sempre di più. L’uomo allora è costretto a ricominciare da capo, ogni mattina, tentando di venire a capo della storia, cambiando sestiere, evitando come può l’apparizione improvvisa di Barrante, sperando di richiamare alla mente la sua Silvia e le cose vissute insieme. Ma ogni volta accade qualcosa che lo riporta nel caos e lo costringe a ripetere il tentativo di nuovo e ancora, come Sisifo col suo masso.
Andando avanti nel racconto, anche i personaggi si modificano: nell’aspetto, nei dialoghi, ma soprattutto nel ruolo e nelle relazioni, tanto che il protagonista stenta a posizionarli e contestualizzarli. Piano piano tutto sembra sgretolarsi e ricomporsi altrove, in una realtà parallela difficile da afferrare: lo sgomento del protagonista diventa anche quello del lettore che a un tratto si ritrova a girovagare, anch’egli disorientato, per una Venezia irriconoscibile e attraverso una narrazione non più lineare.

E’ una storia che procede per dolorosa sottrazione, per ripetuti sgretolamenti, quella raccontata da Bodi, e che affronta temi importanti. In primo luogo, lo scorrere del tempo, topos eterno e universale. Come può l’uomo rallentare l’inesorabile macchina temporale e afferrare nuovamente la felicità di certi momenti passati? Come può trattenerli nella sua mente e trasformarli in consolazione se sfuggono così rapidamente e senza rimedio? Ed ecco l’altro tema fondante del romanzo, cioè la memoria. Quando il tempo divora ogni cosa senza lasciare alcuna traccia nei nostri ricordi, la vita si riduce a uno stato di costante disorientamento, nel terrore di non avere più appigli, nell’ansia terribile che un clown dispettoso e cinico distrugga tutto ciò a cui siamo legati. Cosa resta quando la memoria si sgretola? Rimane, appunto, il peso della sua assenza: senza la memoria siamo aloni lasciati da quadri dismessi, frantumati, mai più recuperati.

Per leggere questo libro ho avuto bisogno di un silenzio pressoché totale. Alla fine, ho accompagnato mentalmente la lettura degli ultimi capitoli con Concerto in do minore di Anonimo veneziano, per affezione al film, al successivo romanzo di Berto e per mille altri motivi che non sto qui a spiegare. Ho mantenuto quella musica e quella storia fra i pensieri, insieme alla Venezia decadente, alla consapevolezza amara di una fine imminente e dei sentimenti che legano le persone al di là delle avversità e oltre il tempo.
L’armonia struggente dell’oboe ha accompagnato il mio immaginario di lettrice de “Il peso dell’assenza” fino a tarda notte, insieme alla commozione per questa storia che Gianluigi Bodi ha scritto con grande delicatezza e rispetto. Non era facile maneggiare una materia così fragile, ma Bodi, autore attento e profondo, ci è riuscito.

Gianluigi Bodi è nato 1975. Nel 2013 ha fondato il blog letterario Senzaudio. Nel 2015 ha vinto il concorso del Festival letterario CartaCarbone con il racconto Perché piango di notte. È stato due volte finalista al contest 8×8. Suoi racconti sono apparsi su numerose riviste, oltre che nelle raccolte I giorni alla finestra (Il Saggiatore, 2020) e Ti racconto una canzone (Arcana, 2022). Ha curato due antologie di autori vari, Teorie e tecniche di indipendenza (Verbavolant, 2016) e Hotel Lagoverde (Liberaria, 2021). Nel 2023 ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti, Un posto difficile da raggiungere (Arkadia).  Il peso dell’assenza è il suo primo romanzo.
(dal sito dell’editore)



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D’inverno dal cortile

44543171_10217884301368684_6129353720816730112_n.jpgHa cominciato a nevicare con una pervicacia che promette pupazzi col naso di carota e battaglie di palle di neve. Nei fiocchi che cadendo mi sfiorano scorgo, con uno sguardo ignoto ai più, le magnifiche geometrie dei cristalli e dentro questa nevicata, immerso fra mille alucce bianche che portano in terra la meraviglia del cielo, me ne sto fermo e quieto, godendomi la metafisica di quest’attimo senza vento.
Da qualche giorno nel condominio c’è un gran fermento. Le finestre sono quasi tutte più vivaci, con passaggi di persone, continui e rapidi. A volte, luccichii improvvisi attirano la mia attenzione, altre sono bagliori di riflessi abbacinanti a stordirmi per un attimo, e poi basta. Tutto tace per un po’. Qui fuori fa freddo, ma il cortile risente del calore della nuova atmosfera che agita questa piccola fetta di cittadina umanità. Molte finestre hanno tende più o meno opache e arricciate a fare da sipario: dietro, commedie comuni di peccati veniali oppure spettacoli di macabra fattura che nessuno immaginerebbe mai. Altre, invece, esibiscono senza remora alcuna trasparenze e quotidianità.

La signora Cianci del primo piano è alle prese con un cucciolo di beagle arrivato pochi giorni fa con un grosso nastro rosso al collo. Orina e defeca ovunque e lei, con una pazienza sorprendente che l’ha ringiovanita, si china, pulisce e sorride, fendendo minacciosa l’aria con la mano, come a un nipotino che fa le marachelle. L’ho vista piangere mille volte, quando suo figlio è uscito dal salotto dopo un abbraccio. E sono contento, adesso, di vederla vivace e in compagnia.

Il piccolo Thomas, invece, mi dà pensiero. Continua con quella sua pistola giocattolo che ha scartato  anzitempo e senza garbo, a sparare su ogni cosa faccia da bersaglio mobile, che sia la madre, la sorella o il gatto. Lo scruto, mentre striscia dietro il divano o lungo le pareti del soggiorno per prendere la mira. Il malcapitato, colpito all’improvviso dall’ambizione di una ridicola ventosa, protesta e si aspetta (mi aspetto anch’io) una smorfia che tradisca un pentimento, un piccolo rammarico. Ma, niente, non arriva che il solito ghigno soddisfatto.

Maria, al terzo piano, ha comprato una parrucca nuova il giorno dopo che ha terminato l’ultimo ciclo di terapie. Non vomita più da un po’ e il suo colorito sembra meno cinereo del solito. Non l’ho mai vista rassegnata. È, al contrario, una guerriera in questo tempo strano che assesta colpi durissimi a chi ha le spalle piccole come un uccellino. Ho visto le sue scuotersi per i conati e farsi grandi, enormi e forti per dignità e resistenza. La nuova parrucca ha pure qualche ricciolo. Sta ricominciando a vivere, ho pensato quando l’ho vista. La voglia di un vezzo, in una donna, è segno di una qualche prospettiva.

Nell’attico c’è sempre aria di festa. La coppia che vi abita è conviviale, non fa che organizzare cene e festicciole a cui partecipano altre coppie. Non ci sono bambini, non ancora. Chissà se arriveranno. Dall’aspetto lindo e ordinatissimo del salone doppio direi che non sono in programma. Sorrido pensando alla festa che farebbe il gatto del bimbo guerraiolo in una stanza come quella. Ho osservato quel salone per ore, giorni e settimane. È quasi sempre vuoto e desolato, come una mostra di mobili il giorno di chiusura. Poi, nel fine settimana si accende e s’illumina di un’allegria glassata che da qui mi pare finta. Che strano modo di sentirsi a casa.

La finestra del sesto piano, quella dell’avvocato Perri, è sempre in penombra. Da quando è rimasto solo non accende più la luce, se non la lampada da lettura accanto alla sua poltrona, anche la notte. L’avvocato trascorre molte ore a leggere, lisciandosi la barba bianca con le dita storte per l’artrosi. A volte lo vedo parlare da solo, e sorridere, pure, come se avesse mantenuto una confidenza trans-umana con la moglie. Quando all’ultimo piano danno quelle feste, ogni tanto distoglie lo sguardo dal suo libro e alza il capo come per capire cosa succede. A volte, l’ho visto esasperato e irrequieto, chiudere di botto il volume, disturbato dalla musica troppo alta e alzarsi in fretta dalla poltrona. Se non fosse per il vetro che ci separa, giurerei di averlo sentito anche imprecare. Poi, di solito torna con un bicchiere pieno e riprende la lettura, col petto pieno di sospiri.

Il cortile si è riempito di neve e non mi dispiace. Sono nato per temperature come queste. Mi sento a mio agio solo in questi mesi rigidi. Non cambierei questo posto con nessun altro, sebbene abbia modo di intrecciare solo raramente cose simili a delle relazioni. Da qui la vita mi scorre accanto con il senso sconcertante e terribile della verità. Difficile vederne tanta da altre prospettive. Quasi impossibile immaginarla tale e quale oltre un portone che non concede all’osservatore nemmeno le più esigue trasparenze.
Sono nato, dicevo, per stare al freddo fuori dalle finestre, fermo e guardingo. Ma se potessi sporgermi verso le case farei un complimento galante a Maria per la nuova parrucca e quattro chiacchiere col padre di Thomas. Potendo, forse, condividerei un bicchiere con l’avvocato Perri e gli racconterei di chi prima di lui ha bevuto vicino a quella finestra, molti anni fa, rileggendo manoscritti e preparando relazioni. Alla signora Cianci regalerei attese assai più brevi fra una visita e l’altra, e magari qualche biglietto per il teatro. Mentre alla coppia dell’attico non saprei davvero che regalo fare, se non un animale che a zampe infangate saltasse sul divano fra una e l’altra festa. Non è per cattiveria, ma solo per istinto, ché la vita vera non è mai così perfetta.
Adesso, scusate, mi preparo all’orda di bambini che fra poco riempirà il cortile di giochi e di strilli. Lascerò cadere dall’alto, a sorpresa, un po’ di neve perché sentirli ridere mi fa felice. È così tutti gli anni, da decenni e io non sono affatto stanco di sentirli urlare. Non lo sono nemmeno di pensare. Anche se, lo so, i pensieri di un vecchio abete non interessano a nessuno.

 

© giusi d’urso

 

 

 

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Il cruciverba

12208305_10208144258713705_4756398487949179452_nDopo pranzo andò a gustare il caffè sul piccolo terrazzo della cucina. Aveva preso quell’abitudine da poco, solo da qualche settimana, scoprendo che l’autunno colorava di rosso e arancio gli alberi e le aiuole sottostanti. Un tappeto di colori caldi, accogliente come un salotto. Una nota romantica cui non aveva mai fatto caso, pur vivendo in quella casa da oltre dieci anni.
Donna in carriera. Fermarsi a respirare era stato un lusso, dormire una perdita di tempo. I figli, no, fagocitano energie. L’amore, sì, se arriva, ma ognuno a casa sua. Direzione convinta, legittima scelta. Nessun ripensamento, nessun rimpianto, molti viaggi e altrettanti letti  disfatti. Valigia a portata di mano, si parte, si lavora, si torna, si riparte. Era la sua vita, costruita con la tenacia degli uccelli migratori e l’ambizione del figlio promettente di un re. Ultimamente, però, una nuova sensazione si era insinuata sotto la pelle, densa e limacciosa. Una sorta di fango emotivo diffuso in tutto il corpo da una costellazione sentimentale sconosciuta, arrivata, inattesa e ineluttabile, con l’età di mezzo.
Il caffè aveva un sapore diverso sorseggiato lì, a quel terrazzo, osservatorio improvvisato di quell’autunno nuovo.
Ogni giorno, a quell’ora, la panchina accoglieva un duo mite e lento. Un’anziana dai capelli completamente bianchi e il passo incerto e una ragazza bionda e snella che le si rivolgeva in un italiano incerto ma comprensibile. Si sedevano, dopo che lei, la giovane, aveva tolto le foglie arancioni e gialle dall’aiuola, facendole volare dietro la panchina. Un ritorno di natura alla natura che risparmiava alle foglie il contatto scabro sull’asfalto, segno antropico di un progresso inarrestabile. Il volo sospinto dalla mano, che sembrava di uccelli tropicali, faceva planare le foglie sulle altre già cadute dai larici variopinti. Ogni volta, quell’interruzione d’immobilità, smuoveva altri voli, come di farfalle e di altro fogliame che improvvisava brevi moti fruscianti, quasi a smascherare l’insospettabile vitalità di una stagione di passaggio. La donna al terrazzo, sorseggiando il caffè, osservava con l’idea di un sorriso malinconico che da tutta la vita attendeva di concedersi.

Le tornò in mente quell’amore ruvido d’oltreoceano. Un’attrazione fisica incontenibile che, a distanza di anni, somigliava a un regalo ben incartato e irresistibile. Thomas. Ingegnere rampante. Sportivo e piacente. Ma non era stato quello a fare breccia, no. Era stato invece quel silenzio pieno di respiri incalzanti e promesse indefinite, il suo viso a pochissima distanza, l’alito col ricordo di una sigaretta assaggiata e poi buttata via e la barba incolta e brizzolata. Quella vicinanza così irrimediabilmente eccitante, quella minuscola distanza fra le loro labbra, dentro la quale si erano arrotolate parole mai dette eppure indubbiamente udite; nella quale erano evaporati buoni propositi e materializzati progetti leggeri e scintillanti come lustrini. Lui sposato. Padre di due figli. Lei, niente. Prigioniera della sua libertà.

La donna anziana tirò fuori dalla borsa un giornale e una matita. Quella giovane, uno scialle e glielo accomodò sulle spalle mormorando qualcosa come: se hai freddo dimmelo, Emma, tornare a casa noi due. Emma dai capelli bianchi prese a sfogliare il giornale e l’altra ad attendere qualcosa che sembrava scontato e familiare.
Intanto, la scuola oltre i giardini, regalava grida acerbe di bambini all’aria quasi satura dell’odore di sughi sui fornelli. Se chiudeva gli occhi, la donna al terrazzo, sentiva un suono unico di foglie e grida. Concentrandosi però, anche una scala al pianoforte, ripetuta con tenacia esasperante e, forse, persino il suono leggero delle pagine che Emma sfogliava con calma sotto gli occhi della sua giovane amica. Erano sempre stati lì quei suoni e non li aveva mai sentiti? Oppure nascevano con lo stupore nuovo di questa epifania inconsapevolmente attesa? Un altro sorso di caffè e ancora una tessera apposta al puzzle di quel sorriso in costruzione.

Una corsa in metrò, per dirgli che sarebbe stata ancora e sempre ciò che lui voleva, ché non c’era altro progetto, nessun rimpianto, nemmeno un dubbio, nessun ostacolo. Piuttosto, la ricerca di un antidoto a quella vorticosa parodia della vita, spesa fra aeroporti e alberghi. Corse per raggiungerlo a una conferenza, senza preavviso, mentre si chiedeva se fosse o meno amore. Entrò in silenzio nell’auditorium, arginando l’affanno del respiro e del cuore con la regola di fredda compostezza che aveva acquisito negli anni di disciplina alla carriera. Thomas relazionava, alto, elegante e a suo agio, la cuffia con microfono e auricolare gli concedeva libertà di movimento. Il busto appena ruotato per indicare l’andamento di un grafico sulla resistenza meccanica di certi materiali al rischio sismico. La voce rocciosa, a tratti calda e profonda, con quegli insospettabili bassi, ottave scoscese e aspre, che le ricordavano i sussurri e l’intimità a letto dopo il sesso. Si chiese ancora se fosse amore, mentre, in attesa che l’uomo terminasse il suo intervento, si lasciava invadere da un’ebbrezza che alleggeriva i pensieri. L’avrebbe raggiunto per dirgli che era pronta a restare tutte le volte che avrebbe avuto voglia di lei. Se lo sarebbe fatto bastare. Avrebbe lasciato l’Italia definitivamente. Senza pretesa alcuna. E nemmeno un dolore.

Emma trovò la pagina e incoraggiò la ragazza a seguirla. Cominciò a leggere, uno orizzontale, nome della nota cappella del giudizio universale, dai, lo abbiamo già trovato in un altro cruciverba, se non ti ricordi, vediamo il tre verticale. La ragazza, accento est europeo, sfogliò veloce un piccolo notes fitto di parole a penna blu e di disegni con frecce e inserti evidenziati in giallo.  Poi indicò titubante le definizioni delle parole più brevi, articoli, aggettivi possessivi, preposizioni semplici e complesse, di più il fa del, a più la fa alla. La donna anziana sorrise e la incoraggiò, vecchia maestra mai stanca, coraggio, andiamo avanti che sei bravissima. Incrociarono parole e sguardi per un po’. La matita era un ago che rammendava strappi, riconciliava il tempo degli addii e delle lontananze. Il cruciverba, una scacchiera su cui incastrare un futuro piccolo e sgomento. Giochiamo, Emma, imparo a stare nel tuo mondo.
Dal terrazzo, un sorso ancora di caffè e di inattesa commozione davanti a quella scena incastonata nell’autunno sorprendentemente mite. Desiderò il sorriso sotto le rughe ai lati della bocca.

Thomas terminò la relazione, prese gli applausi del pubblico, numeroso e visibilmente impressionato dall’intervento. Poi si diresse giù dal palco, verso la sua poltrona. Una giovane donna gli andò incontro. Non era la donna della foto di famiglia, quella madre bella e morbida con i due figli in braccio che guardava nell’obiettivo della macchina fotografica. Era poco più che una ragazza. Un progetto nuovo, o forse una nuova assenza di programmi a breve e lungo termine. Un altro letto caldo. Altri sussurri, altre parole. Oppure, le stesse che lei aveva annotato sul telefono per non dimenticarle.
Sentì le gambe allentare la tensione della postura eretta e si accasciò su una poltrona in ultima fila, invecchiata di una fanciullesca lisa, incosciente, portata all’estremo dalla convinzione di poter essere per sempre ciò che lui voleva.  Il volo di rientro la riportò in una dimensione parca, insieme a un senso inatteso di leggerezza.

Finì il caffè e si concesse qualche altro minuto, tenendo la tazzina ancora tiepida fra i palmi delle mani. Emma e la giovane straniera erano ancora lì, la loro conversazione coperta dai giochi rumorosi dei bimbi in cortile. Le foglie ai piedi dei larici accennarono un breve mulinello. Si era alzato un po’ di vento. Emma porse matita e cruciverba alla ragazza e annodò le punte dello scialle sul petto. Ancora una pagina, ancora un incrocio  e l’attesa di un ultima risposta. Brava, risposta esatta, cruciverba terminato. Il labiale fu chiaro anche da lontano. I bambini rientrarono e la ragazza prese Emma sotto braccio per rientrare.
La donna del terrazzo socchiuse gli occhi, provò a pensare alla sua vita come a una parola, un cinque orizzontale, ma ci stava larga. Riaprì gli occhi, buttò fuori la tristezza in un sospiro e non sentì dolore. Ché in fondo perdere a volte è l’unico modo per capire. E rientrando in casa, sorrise.

© giusi d’urso

 

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In segreto, in silenzio

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La finestra è socchiusa e la sera di marzo – imprevisto chiaro di luna – riempie la stanza dalla fessura concessa alla situazione insolita. Lui non ha caldo. Lei sì. Non è stato sempre così, ma l’esatto contrario. Lui si scopre durante la notte, lei tira a sé le coperte, ne fa un bozzolo in cui maturare un riposo senza interruzioni né metamorfosi. Nelle sere di gioco e discorsi leggeri, interrotti dal fragore di risate che incoraggiano la vicinanza, lui accoglie i piedi gelati di lei. Allora c’è tempo e atmosfera per distribuire equamente il calore, bilanciare temperature e stati d’animo. Parlare e poi fare l’amore.
Ma adesso, no. È tempo di assecondarla, questa donna in attesa. Questo cilindro magico che promette dolore e tenerezze. Il lenzuolo segue la rotondità del ventre, scorrendo sul movimento regolare del respiro e lui resta accanto, sveglio. Non si può dormire di fronte a un programma così misterioso. E quindi, pazienza, non dormirà, ché diventare padre non è roba da poco.

Ricorda appena, l’uomo, l’arrivo della sorella. Quell’atmosfera d’irrequietezza che respirò per giorni attraverso discorsi imbastiti di parole sconosciute, cesareo, urgenza, pressione, degenza. Mamma non c’è, sta via per qualche giorno, poi torna con la sorellina, sei contento. Troppo piccolo per capire, troppo grande per l’indifferenza. No, non era contento. Mamma con un altro bambino. Una femmina, poi. Perché tutti davano per scontato che sarebbe stato contento? Sì, diventare il fratello maggiore gli insufflava in petto un’inspiegabile fierezza: maggiore, l’inizio di una qualche carriera, un primo scalino, una tacca in più sul muro, sei grande, adesso. Ma era proprio necessario portarsela a casa, quella, tenerla accanto a mamma notte e giorno?
Poi era nata e lui l’aveva vista entrando nella penombra in una stanza fresca e piena di stupore, il dito nella culla a cercare un contatto discreto. Non una coccola, solo un contatto per tastare quella pelle nuova, rossa e grinzosa. Il tatto dice tante cose. Il tatto è primitivo, libero da preconcetti, schietto e scrupoloso.
Come fanno a dire che sei bella?
La piccola gli strinse forte il dito e lui restò così per un tempo che gli sembrò infinito, fino a quando non si decise a chiedere come fare a liberarsi. Contrariato, vide che gli altri ridevano di lui.

Sdraiato su un fianco accanto alla sua donna pensa che la pancia tonda è un mappamondo di cui disconosce la geografia, nonostante i libri sfogliati insieme negli ultimi mesi. La superficie adesso è segnata da arterie blu, confini di territori sconosciuti. L’ombelico è sporgente, osservatorio in cima a un’enorme collina. La topografia di quel ventre rotondo lo distoglie da tutto il resto. Da settimane, ormai, rientrando a sera, attende quella liturgia: la trova stanca, piedi gonfi, schiena a pezzi, quel nuovo colorito che, scavalcando il naso, passa da una guancia all’altra come il ponte fra le sponde di un fiume. Si sdraia sul divano, la donna, cena sbadigliando e poi cerca il letto quasi a occhi chiusi. Il suo sonno, sotto il cuscino, pronto, profondo solo per qualche ora. E in questo tempo, con una parte di cervello e cuore che non sapeva di avere, l’uomo elabora serie infinite di dati di questa nuova mappa emozionale.

Il padre non sa. La madre sa tutto. Lo sa prima di esserlo. Quel silenzio lo dispone al tentativo di comunicare, come l’invito a un dialogo nuovo, sarò tuo figlio, chiamami con la tua voce. L’uomo se ne dichiara fuori per rispetto e inettitudine. Il suo dialogo lo fa senza alcun suono, ché sarebbe già troppo anche un solo filo di cotone fra loro due, pensa, fra il progetto e il suo tenace artigiano.
Lui si fa trasparente. Parla in silenzio, in segreto.

Ho qui, fra gola e costole, una specie di rammarico per ciò che mi sfugge e che forse ti aspetti da me. Non dirò del mondo, né di previsioni sul futuro, di cotte alle elementari, di sgridate dopo le marachelle. Non so niente e immaginare è un diritto che lascio a chi ti nutre. Il padre non sa niente. Impara da questo rammarico che un po’ soffoca e un po’ entusiasma.

Una nuvola toglie alterigia alla luna. La sera ora è una notte buia.

Dopo un incubo suo padre era accorso nel buio, non è niente, è solo un brutto sogno. E lui, sudato e impaurito, non riusciva a parlare. Chissà quali fantasmi gli avevano addentato gambe e braccia, chissà quale rugghio gli era riecheggiato nell’orecchio e nel cuore, insieme alla vergogna per quella paura, per il pianto.
Ma papà è qui, papà è forte, eccomi, non c’è niente da temere.
Un’altra notte, sua madre aveva preceduto il conato, bacinella pronta e mano sulla fronte. Ancora prima di un sussurro. Il malessere era nel respiro e l’allerta un richiamo sottile infilatosi fra il cuscino e il sonno di lei. Prima dell’accaduto, lei c’era. La madre sa tutto. Lo sa prima.

Io invece non so niente.

In silenzio, in segreto, il dialogo fluisce senza coscienza di una meta, solo con la speranza del perdono preventivo. Ecco, ti volevo dire che non ho coraggio, non sono forte e il buio mi mette a disagio. Ho il sonno pesante, anche se da settimane non riesco più a dormire. Perché, vedi, questo è uno strano passaggio. È diventare uomo grazie a un bambino. Che ci si senta pronti o no. Un battesimo, no, che dico, un’epifania. Ho perso mio padre e ora avrò te. Ci penso appena fa buio, forse l’oscurità rivela nuovi panorami di esperienze e nostalgie. E quindi, mentre penso a lui che non c’è più, arrivi tu, con una forza su cui non ho controllo. Cresci dentro tua madre e sai di lei ciò che io ignoro. Annusi i suoi umori da dentro, ti nutri dal suo sangue, sintonizzi il sonno sul suo battito, ti dondoli sul suo respiro. Tu basti a lei e lei a te.

Sgomento, l’uomo chiude gli occhi.

Il cavaliere forte aveva affrontato con coraggio anche la fine. Il figlio, senza spada né scudo, lo aveva accompagnato. Eccomi, papà, sono con te. Il respiro si era fatto lento e lievissimo fino a scomparire, ma fra ogni battito c’era stato il tempo di un abbraccio, di quella tenerezza che fra uomini non usa, invece adesso è necessaria, papà, e io ti voglio dare tutti i baci che non ti ho mai dato. Sui capelli bianchi, disciplinati dal tempo, sulle gote lisce di vecchiaia e sulle mani scarnificate dai digiuni e dai dolori. Mio cavaliere, forte e coraggioso, ti accompagno fino a dove posso.

Il vero dolore, quando perdi un padre, è sapere che fra te e la vita non c’è più nessuno pronto a prendere la spada e correre a salvarti.

C’è ancora un’attesa da tollerare, dietro questa grande finestra di vetro. Ti ho intravisto fra i sussulti di una commozione nuova. Troppa luce per te, gliel’ho detto. Hanno sorriso di me e ti hanno portato altrove. Mi sono ritrovato subito fuori dalla sala parto e lei non mi ha salutato, era assopita. Era già tua.
La tenda è spessa e non lascia intravedere se non le sagome delle culle. Poi qualcuno ha pietà di me e degli altri uomini che si allenano da poche ore a congratulazioni e pacche sulla spalla. La tenda si apre, l’infermiera sorride. Ti prende in braccio per secondo e io penso che la bambina appena venuta al mondo ti ha già scavalcato. Arrivano sempre prima, sappilo.
Hai pochi capelli, il naso piccolo è di tua madre, così come la forma del viso. Vorrei ripeterti quel discorsetto che ti ho fatto l’altra sera. Ma tutta questa luce, così potente e fulgida, mi ammutolisce. Insieme allo sguardo attento su di te che mi sottrae energie, come il timore che le braccia di quella donna in camice che ti tira su come fossi in vendita non siano abbastanza forti e protettive.
Ed eccomi, dunque, in silenzio e senza più segreti, fra te e la vita.

 

© giusi d’urso