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Il compiaciuto intero

Sono fortunata, io, con le mie due metà, l’una cresciuta a pane e parole e l’altra tirata su a chimica organica e biologia. Mi colloco in quella parte del mondo immaginario di cui qualcuno non sa dire nulla se non che o fai una cosa oppure ne fai un’altra. Lo stesso mantra che per anni mi son sentita predicare mentre studiavo e lavoravo insieme. Avere due metà così prolifiche invece è un privilegio. Il risultato, un compiaciuto intero.
Lo tratto bene, io, il mio privilegio. La biologia è materiale di scrittura creativa, la propensione alle parole è strumento per raccontare la biologia. Le mie metà vanno d’accordo fra di loro e, stranamente, anche con quella parte di me che sa essere esigente e tenace fino all’ossessione, creativa e rigorosa come le due metà le ordinano da sempre. Che poi scrivere non è che una delle mappe a disposizione di chi nasce e comincia a viaggiare fuori da sua madre. È come il remo che spinge avanti la barca, la luna che illumina il giardino. La musica che colma e risolve il silenzio cupo.

Ho la fortuna di insegnare e di aiutare le persone a fare del loro cibo strumento di salute. E non è forse il buon cibo come le parole? Nutre, sazia, gratifica. Non c’è dicotomia ma fratellanza, lo penso ogni volta che qualcuno me ne chiede conto. Ma come fai, come concili? Non avverto alcun bisogno di conciliazione. Non chiedo salvezza da questo dimezzamento. Qualora si arrivasse allo scontro (a volte capita) l’accolgo, mi faccio campo di battaglia, lascio procedere le fazioni contrapposte; e prendo il meglio dalle due metà, ne faccio un tappeto, una cesta, un maglione. Qualcosa che mi torni utile sul momento o in futuro. Accade sempre. Accade per natura che arrivi il momento di ringraziare il fato.

Le mie metà non sono causa dell’insonnia che a cicli viene a visitare le mie notti. Credo che accada il contrario: è l’insonnia a costruire fra loro ponti e cerniere, che le rende forti e le struttura nell’intesa di una fratellanza. È l’insonnia, sono tutti i pensieri che contiene a fortificare delle due metà diversità e congruenze. Due palazzi che si sorreggono fra loro.

È sempre stato così. È la carne che viene da mia madre e da mio padre. Non ho mai trascurato la scrittura e la lettura quando sembravo dedita completamente alla biologia. Non ho tralasciato la mia scienza-fondamento quando ho dedicato tempo alle parole. È solo questione di occasioni e di possibilità. E di quell’arbitrio libero e incondizionato che mi fa scegliere di concedere spazio e tempo alle due metà che mi compongono, che mi fa dire sono entrambe me, fino al midollo. Riconoscerlo è terapeutico. Accettarlo inebriante.

© giusi d’urso
immagine di Hakeen James Hausley

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#secondapelle Racconti

“Codice universale” su Storie a catinelle


Schermata 2020-06-29 alle 11.31.40Ho cinquant’anni e sono biologo.

Ho cinquant’anni, sono biologo  e morirò di cancro.

Come faccio a saperlo? So per certo che i sistemi di riparazione del DNA funzionano bene solo in giovane età. Dopo i quarant’anni, forse dopo i trenta, fanno acqua da tutte le parti, gli errori si accumulano e… addio salute. Le mutazioni sono come crepe su una diga, è solo questione di tempo. Continua a leggere su Storie a catinelle

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#risvegli #secondapelle

Di cose dimenticate e poi riemerse

Di cose dimenticate e poi riemerse. Di parole acuminate che sembravano spine. La più piccola. La più piccola della classe. La più piccola del gruppo. La più piccola dell’elenco, della schiera, della serie, della squadra. La fatica di essere “ina”, che deve competere, che deve farcela, che deve vincere. Ma vincere cosa? È un’illusione la gara cui gli altri ti hanno iscritto. Competi con te stessa, non con gli altri. Odii te stessa, combatti la “ina” che è in te, se vinci è contro te stessa. Ti ammazzi. E mentre ti uccidi accontenti, compiaci, inorgoglisci. Gli altri, però. Tu resti indietro. Avanti c’è sempre qualcun altro che è più. Nessuno capisce che vuoi stare fuori dalla gara. Nessuno sa, nessuno vuol sapere. Nessuno. Non sei di nessuno e tutti ti vogliono prima. Non sei di nessuno e tutti ti usano per arrivare primi. Poi da grande ti scopri brava. Non più. Non meno. Normale. Solo tu. Sei brava di una bravura che nessuno ha previsto, su cui nessuno ha scommesso. La tua. Finalmente.

© giusi d’urso

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#secondapelle Racconti Scrittura

La scoperta

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La luce della lampada sul dettaglio dell’affresco crea una finestra luminosa su un mondo misterioso. Sabine osserva per un po’ il riquadro illuminato, prima di cominciare. È l’attimo che precede la scelta della tecnica, quello più delicato, prima della scoperta di ciò che il tempo ha nascosto stratificandosi.
È tornata al lavoro da poche settimane. Ha preso l’abitudine di lavorare negli orari in cui la squadra è altrove o di riposo. Pensierosa, solitaria, silenziosa più di un tempo, dopo quasi due anni di … malattia? Deve chiamarla così? Ancora non riesce a dare un nome a quella lontananza forzata una definizione e, quindi, una collocazione. È troppo presto, le dicono gli amici e i parenti; devi concederti tempo, la terapeuta.
Lo sguardo si sposta lentamente dalla zona illuminata a tutto l’affresco. Poi si allontana un po’, alza la testa, ne ammira l’ampiezza, ne immagina e pregusta la bellezza. Chissà cosa c’è sotto, quali colori, quale scena. Il restauro architettonico ha svelato, sotto intonaci recenti, una parete antica e annerita dal tempo e dallo sporco. Ha quasi paura di iniziare, Sabine, di perdere il senso di quell’attesa piena di meraviglia. Tergiversa. Si concede qualche altro minuto davanti alla finestra di restauro, anche se ha già deciso come iniziare il primo lavoro di pulizia.

Affiorano, intanto, pensieri che non vorrebbe avere e che deve imparare a sopportare, per non farsi male quando il ricordo comincerà a correre e sbattere da una parte all’altra del torace. Non si è ancora abituata – accadrà mai? – a questa nuova estenuante guerra di reminiscenze che, ogni volta, la lascia senza energie. Col tempo, le hanno detto e ripetuto. Perché solo il tempo guarisce. La migliore medicina.
Con le mani riavvia i capelli all’indietro e li raccoglie dietro le orecchie. I riccioli non sfuggono, incastrati, immobili in attesa che la fascia elasticizzata li mantenga lontani dagli occhi.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, le aveva detto lui quando era andata a fare lo stage a Parigi. Solo pochi giorni, tornerò presto. Perché non mi vuoi con te, le aveva chiesto lui senza darsi pace. Chi ti aspetta laggiù, con chi devi vederti? Lei sorrideva e lo scherniva per quella gelosia fuori luogo. Voleva andarci da sola allo stage, per concentrarsi meglio sullo studio, non avere distrazioni, rendere al massimo. L’aveva accompagnata al gate, inquieto. Nemmeno un sorriso. Un bacio rapace, coi polpastrelli premuti con forza nella schiena di lei. Lo amava moltissimo. Anche s’è geloso? Ma sì, quando vivremo insieme gli passerà. Anche se a volte ti fa sentire in colpa? È il suo modo giocare. Anche se ti chiama continuamente per sapere dove sei? È perché non vuole perdersi niente.
C’era già, in fondo, un impercettibile disagio. Spine, asperità, increspature. Una domanda che non prendeva forma né suono e che lei aveva continuato a ignorare, presa com’era da tutto quell’amore così coinvolgente. Due persone in una sola, mescolanza di fiati e pelle, il suo odore fra le lenzuola anche quando non c’era.

Lentamente e senza smettere di guardare la zona illuminata, Sabine, si avvicina al tavolo degli strumenti e comincia a preparare dei batuffoli di ovatta. In fila, piccole nuvole allineate. I guanti. L’acqua e il sapone. I solventi, un po’ più in là, con i tappi ben incastrati per evitare esalazioni. Comincia con acqua e sapone, sperando che possa bastare a smascherare un primo dettaglio dell’affresco. L’ovatta lentamente descrive un’area dapprima ovale, poi si allarga e definisce un rettangolo. Il grigio superficiale sembra sciogliersi e farsi da parte fagocitato dalla nuvola idrofila. Un colore giallo pallido, sotto. Non basta, il tempo ha lavorato con tenacia per oscurare l’affresco. Toglie il tappo al barattolo di un solvente, imbeve un altro batuffolo e l’odore si propaga rapidamente nell’aria. Pensa alle molecole volatili come spiritelli che sfuggono e si librano in volo. Le torna in mente un gioco che faceva da bambina con suo padre.
Lui la tirava su, lei volava con le braccia aperte e il vestito le si gonfiava d’aria. Il volo più bello del mondo. Mamma rideva vedendoci giocare, ricordi papà. Anche il giorno del mio matrimonio facemmo un gioco, io e te, e mamma si commosse, ricordi papà: mi prendesti le mani e ci mettemmo a fare un girotondo vorticoso su quella musica che ti piaceva tanto. Mi gira la testa, piano che ho bevuto un po’. Mi abbracciasti e con le lacrime agli occhi mi dicesti che saresti stato sempre presente, qualsiasi cosa fosse accaduta. Un presentimento, papà?

Via quel pensiero. Via il ricordo. Lavora, Sabine.

Ancora un batuffolo imbevuto e poi il bloccante, così si chiama il prodotto che inibisce la reazione innescata dal solvente. Ogni veleno ha un antidoto, pensa, tutto si risolve e dissolve, passa, cambia. Quasi tutto.
Un’altra volta il solvente, subito dopo il bloccante. Veleno, antidoto. Trapela un giallo che diventa quasi bianco. Delle righe scure, forse. Aggiusta la lampada per indirizzare meglio il fascio di luce. Non riesce a capire di cosa si tratti. Continua, allora, con quel contegno che fa dei restauratori pazienti artisti della scoperta, esploratori di realtà dimenticate. Quanto tempo ha impiegato l’artista a dipingere l’affresco? Immaginava che sarebbe la sua opera sarebbe arrivata fin qui, sotto il suo sguardo e la sua curiosità?
I batuffoli utilizzati si accumulano in un secchio accanto a lei, scuri, umidi e compattati dalla pressione delle dita, dimentichi della loro primigenia leggera consistenza.

Quando, dopo l’ennesimo litigio violento, si era resa conto che niente sarebbe cambiato  pensò alle parole giuste per non ferirlo. Come fosse sua madre.
Sapeva che non sarebbe stato facile andare via. Chiamò suo padre per un po’ di coraggio: papà, lo lascio per un po’, voglio tornare a casa. Suo padre sarebbe corso da lei ma, no, doveva restare un affare fra marito e moglie. Troverò il modo, vedrai. Glielo dirò fuori, non saremo soli, non farà scenate.
Sabine chiese al marito di raggiungerla dopo il lavoro davanti a un ristorante molto frequentato. Erano stati anni di gelosia e amore, violenza e dolcezza. Veleno e antidoto. Era stanca, gli avrebbe detto che non ce la faceva più e che pensava di allontanarsi per un po’, tornare dai suoi e poi …
Lui non attese l’ora dell’incontro. Sabine se lo trovò davanti nella cripta in cui stava lavorando oltre l’orario canonico. La squadra era appena andata via. Urlarono. Lui la strinse forte. Lei si divincolò. Lasciami andare, torna a casa adesso. Ho bisogno di starti lontana.
Lui si girò per uscire. Poi, uno sparo. Lei si accascia come un fantoccio.
Un altro sparo. Lui è sul pavimento antico e freddo. La sagoma della testa interrotta in un punto da cui diffonde una macchia scura e densa. L’eco duplice. Terribile. Onde acustiche si sovrappongono, si incuneano nella cripta, percorrono rapidamente i corridoi angusti e deflagrano all’esterno. La chiesa, con le navate e gli archi e le ogive e gli altari, le amplifica e restituisce il suono terrificante di un boato.

Piccoli segni scuri trapelano dopo l’ennesimo batuffolo imbevuto di solvente e il successivo di bloccante. Veleno, antidoto.
Sabine si china sulla parete e inclina la testa per cercare di mettere a fuoco e dare un senso al dettaglio che sta emergendo. Le sembra di intuire la presenza di pagine, di una scrittura fitta, forse è l’immagine di un libro. Ecco l’altro momento che adora: l’intuizione di ciò che il suo lavoro svela. Sorride, col dorso della mano destra fa come per asciugarsi il sudore, un gesto rituale che ripete ogni volta che pensa di aver raggiunto un obiettivo.
Alza la testa, guarda la parete e sorride ancora. Domani dirà ai ragazzi come procedere con le parti più in alto. Sarà un lavoro duro, ma ha capito come farlo e ha già svelato un piccolo frammento in basso. Un libro, sì, forse una bibbia. I ragazzi della squadra saranno contenti.
All’improvviso si sente stanca. Guarda l’orologio. Non si è resa conto di aver lavorato per ore. I medici le hanno raccomandato di suddividere il lavoro in piccoli intervalli che non superino mai le due ore. Ma a volte se ne dimentica e pensa che sia un buon segno. Tornerà a casa, adesso, a sfogliare i suoi testi di storia dell’arte e restauro per cercare un indizio che possa condurla un passo più là dell’intuizione.
Si sfila i guanti, libera i capelli dalla fascia e e beve un sorso d’acqua.
Gira le spalle all’affresco con un rapido movimento delle mani sulla sedia a rotelle e, senza spegnere la luce, si allontana.

© giusi d’urso

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#risvegli

I vent’anni di mia figlia

person-s-hand-3162828I vent’anni di mia figlia sono un esorcismo al rammarico per i miei venuti male. Il suo profilo, le promesse che ho mantenuto. I vent’anni di mia figlia, che ho messo al mondo mentre nel mio mi orientavo a fatica, sono la mappa dell’isola in cui mi perdevo di continuo. Sono un paio di jeans scoloriti sulle ginocchia, mamma se ti va puoi metterli anche tu. I libri scambiati dopo una chiacchierata sui suoi primi esami all’università, dimmi, mamma, dimmi di Montale, si può non amarlo così tanto? Il mare che ci stanca se stiamo troppo al sole, la pelle che non resiste a un trucco impegnativo, la cioccolata che ci piace ma dobbiamo andarci piano.
A vent’anni mia figlia ha una ragionevolezza che non ho preteso, l’ironia che al mondo scarseggia e la risata da bambina trasparente.
I vent’anni  di mia figlia sono meno della metà dei miei. Sono il segno che avevo una strada buia da illuminare e una bussola da conservare. Li tengo in tasca per i giorni in cui mi perdo. Avanti, mamma, sempre avanti.

© giusi d’urso

foto di Philip Justin Mamelic

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#secondapelle

La fine del ragno – su Fernweh

Lungo la statale Tosco Romagnola c’è questa casa diroccata al cui interno è cresciuto un fico. Le sue fronde sbucano dalle crepe, dai muri mezzi crollati, dalle finestre di cui è rimasto solo il buco rettangolare. Le foglie si sono accomodate come padrone e da lontano sembrano persone affacciate intente a parlottare fra loro.

Da ragazzo ci andavo a disegnare dopo la scuola, nei pomeriggi solitari, quando non mi andava di uscire col gruppo. Era un posto dove nessuno veniva a cercarmi.

Quando avevo undici anni, la zia Rita, che poi era la zia di mio padre, mi raccontò che nella casa del fico abitava un ragazzo della mia età… continua a leggere su FernwehLa fine del ragno - Fernweh

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#secondapelle Racconti

Al contrario

IMG_20181130_073146_183Accanto alla macchina del caffè, fra due mensole di bottiglie allineate come ballerine, è attaccata l’immagine di un Cristo benedicente. Il viso è quello dell’uomo giovane e bello dalla lunga chioma che ad Andrea ha sempre ricordato i capelloni degli anni settanta, un pensiero che corregge ogni volta con un altro: troppo pettinato per essere un hippy. Sorride fra sé.
Nell’aria, le note di Nothing compares to you. Segue il motivo che conosce a memoria, una delle loro canzoni, una vita fa. Gli acuti di Sinead O’Connor gli graffiano qualcosa dentro. Lamiere che stridono nel petto, dove il respiro a volte si fa troppo corto e gli mozza le parole. Una sensazione che avverte da qualche tempo e che, dice il suo medico, viene della rabbia che lo ha allontanato da tutti.
A pensarci bene, forse non era rabbia quella morsa che gli stringeva il petto e lo faceva sproloquiare contro ogni cosa gli balzasse allo sguardo storta o ingiusta. Come la può chiamare adesso che se n’è allontanato? Frustrazione? Infelicità? È davvero così urgente dare un nome a quello che ha passato? Lo è di più guardarsi intorno e sopportare di non vedere nessuno.

Con lei era stato amore subito. Amore al contrario. Senza quella conoscenza che viene dal corteggiamento, qualche piccola propedeutica schermaglia, domani la pizza e il cinema, dopodomani la passeggiata al mare e poi ti bacio perché prima ti bacio e prima ti dico che forse è amore e che voglio stare con te. C’era stato, invece, prima lo stare insieme a letto e dopo tutto il resto. In certi mondi alla rovescia prima ci si gode la pace e poi ci si fa la guerra. Non sarebbe così grave se quella strana trincea non rimanesse a lungo tra le cose di ogni giorno, se non ci si adagiasse l’arma nei momenti buoni per sparare di notte quando tutto intorno cede. Perché  a volte capita. La pace come un vecchio tetto pericolante cede.
Quella guerra non l’aveva vinta nessuno, ma lui, che di quel rancore cupo e profondo non si era liberato, aveva perso di più.

Il Cristo appeso al muro guarda tutti negli occhi. Ovunque ti sposti, nello spazio affollato dai clienti del bar, lui ti segue  e ti mette a disagio, come una domanda scomoda. Quel quadro gliene ricorda un altro a casa di sua nonna, nei pomeriggi da recluso, quando sua madre rimaneva a lavorare fino a tardi e lui restava suo malgrado davanti alla stufa a legna a fare i compiti. Sua madre era bella, ma adesso a volte gli capita di non riuscire a ricordarne con nitidezza i tratti del viso. Di suo padre non ha mai saputo nulla e, al contrario, crede di metterne a fuoco le sembianze.
Mentre la canzone va, Andrea punta gli occhi su un graffio del tavolino: sdraiarsi sfinito in fondo alla trincea, rassegnandosi alla solitudine? Ci sono le parole di lei a demolire certe resistenze, da soli non si va da nessuna parte, ti sei perso, lasciati ritrovare. E c’è il rifiuto di farsi giudicare. Il giudizio è una ghigliottina. Lui è diverso da come pensano, non sopporta l’etichetta di uomo fragile.

Tell me baby where did I go wrong…

Il bar si sta svuotando. Andrea si rende conto solo adesso che è quasi sera. Le ombre lunghe dei clienti invadono il pavimento vicino all’uscita per un attimo prima di sparire. Non riesce a vedere niente. Il Cristo invece è ancora lì, lo fissa dalla nicchia fra le bottiglie allineate e la macchina del caffè, con la sua domanda insistente: chiedere aiuto? Lui che non ha mai avuto bisogno di nessuno?

Da bambino era scappato a volte, era rimasto a girovagare per intere giornate mentre sua madre faceva i conti con una domanda pressante: meglio da sola o con l’uomo sbagliato? Domande da grandi, ma Andrea si si era acquattato aspettando che il suo padre Ulisse tornasse dal mare. Chissà se lo avrebbe riconosciuto.
Poi, basta. La rabbia. E nient’altro.

Tell me baby where did I go wrong…

Qualcuno appoggia lo scontrino accanto alla tazzina vuota, Andrea sa che è un invito a pagare e uscire. La canzone è finita. Si fruga nelle tasche e lascia qualche spicciolo accanto allo scontrino. Si gira per un saluto rapido al barista e incrocia di nuovo lo sguardo del Cristo, ancora lì, con quella sua domanda.
Fuori il tramonto ha allungato ombre sotto i portici ed esaltato riflessi di vetrine che si preparano alla chiusura. Esce con le mani in tasca, tirando su col naso e chiudendo gli occhi per un secondo. La strada è quella di sempre. Il passo è lento per qualche metro. Poi, si fa rapido e procede nel buio che arriva. La città non è mai stata una buona consigliera.

© giusi d’urso

Immagine di Giulia Frassi

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Senza sapere niente

silhouette-of-a-person-4462784 (2)– Avrà freddo lì fuori?
– Ma no, secondo me è abituata, viene dall’Ucraina.
– Davvero?
– Sì, mi ha detto Giorgio che è nata a Kiev, ma non so altro.
– Secondo te quanti anni ha?
– Che ne so? Non l’ho mica guardata, mi mette inquietudine.

I due colleghi parlano di una una giovane donna dai capelli cortissimi e i denti marci che da qualche giorno rimane per ore seduta sul gradino dell’ingresso della Scuola Medica a fumare la pipa e sfogliare articoli scientifici, sia che piova o tiri vento. Non si muove da lì per ore, concentratissima sulla sua attività, fino a quando non ha terminato la lettura o non è arrivato il momento di svuotare la pipa e riempirla di tabacco nuovo. Si è attrezzata con un sacchetto di plastica agganciato alla ringhiera per non sporcare con i suoi rifiuti. Ogni tanto, mentre fuma sorseggia una coca cola. La lattina vuota resta accanto a lei per ospitare la cicca di qualche sigaretta, nel caso le venga voglia di fumare altro. Poi, anche quel rifiuto viene infilato nella busta di plastica.

Una notte di aprile, Anitchka, dormiva nella sua stanza a un passo dai suoi genitori. Suo fratello, nella culla di fianco al letto matrimoniale, era nato da poco e lei da sei anni. Quella notte un’ombra s’insinuò nella sua casa invadendo pareti, coperte, alimenti, vestiti, come accade con l’acqua durante un’alluvione. 

I due giovani alla finestra al primo piano, intenti a godersi la loro unica sigaretta del mattino, stanno ricostruendo, con le poche informazioni reperite e molta fantasia, la vita della donna dello sputo. Così è stata battezzata dai medici e dagli studenti della Scuola, per quel tic strano che le fa sputacchiare di qua e di là il tabacco che ogni tanto mastica. Non sanno nulla in realtà, ma quella donna è così strana, come la sua improvvisa comparsa nei paraggi della Scuola, che ognuno mostra la necessità impellente di  cucirle addosso pezzi di vita più o meno probabili. Il solo fatto di sedere su quei gradini pare renda necessaria l’esternazione di una qualche notizia. Così qualcuno ha raccontato pochi giorni fa di averla sentita sussurrare qualcosa in faccia a un gruppo di studenti in quella sua lingua dura dai suoni stretti come vicoli; qualcun altro ha arricchito il racconto col dettaglio della postura e della camminata mascolina. Altri hanno notato l’abbigliamento piuttosto sobrio e in particolare il giaccone di almeno due taglie più grande e di colore scuro. I capelli di un biondo pagliericcio, cortissimi e divisi  da una scriminatura decisa e domata dal gel. A guardarla bene, ha l’aspetto di un soldato, un reduce, minuto, un po’ perso nella sua divisa troppo larga, ma con l’espressione straniata di chi è stato a lungo in trincea.
Da qualche giorno, quindi, questa donna praticamente sconosciuta, se ne sta a prendersi le intemperie seduta su quel gradino. Ogni volta che qualcuno le passa accanto si gira verso il malcapitato, digrigna i denti marci e lancia uno sputo di tabacco. Il gesto, ma solo quello, ricorda  un po’ quei vecchi mandriani delle pianure americane dei secoli scorsi. Si resta inebetiti, a dire il vero, e non si sa se ridere, lasciar perdere o infuriarsi. Il suo sguardo è così duro e ottuso da scoraggiare alla fine ogni tipo di reazione diretta.

Alla centrale nessuno sapeva di Anitchka, nessuno poteva immaginare che di lì a poche ore sarebbe rimasta sola. Tra la centrale e Anitchka e oltre ancora la sua casa, migliaia di bambini, di adulti, di vecchi si sarebbero disintegrati senza mai sapere niente gli uni degli altri. Il triste destino delle morti imprevedibili e collettive. Nessuno ha il tempo di essere avvisato e di avvisare. Nessuna consolazione fra parenti, amici, semplici conoscenti o perfetti sconosciuti. Senza sapere nulla si sparisce.

– Chissà com’è arrivata fino a qui.
– Pare abbia una borsa di studio al dipartimento di psicologia clinica.
– Ma capisce l’italiano, secondo te?
– Non credo, legge l’inglese, parla sempre nella sua lingua, l’hai sentita anche tu l’altro giorno, quando ci ha sputato il suo tabacco sulle scarpe e ha blaterato qualcosa da quei denti marci.
– Ma tutti qui vengono? Tutti noi li troviamo?
Sorridono, sarcastici. La pausa è terminata, danno ancora un’occhiata furtiva alla donna, chiudono la finestra e tornano al lavoro.

Anitchka continua a leggere fumando la pipa. Ogni tanto la tiene sospesa fra le labbra e si frega le mani, prima di girare la pagina, senza perdere la posizione iniziale, scuotendosi solo un poco e per qualche secondo.
A un tratto, appoggia i fogli sulle gambe, tira fuori dalla tasca del giaccone un notes, una penna e scrive. Torna a leggere, in quella sua postura composta e rigida, e in breve tempo arriva all’ultima frase dell’ultima pagina. Svuota la pipa, annoda il sacchetto pieno di tabacco tiepido e lo ripone in tasca. Si abbottona bene fino al collo e si avvia all’uscita del cortile della Scuola Medica col solito passo da reduce.

Il 26 aprile 1986 a Chernobyl finì il mondo, ma si seppe qualche giorno dopo.

© giusi d’urso

Foto di Antonio Dillard

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Strappi

Ieri ho accompagnato mia madre a Livorno. Questioni sue, nostre, complicate, di affetti forti e disperati. In macchina ha pianto all’idea dell’abbandono di qualcuno che le è molto caro. L’ho consolata come ho potuto, come ho saputo. Per tutto il giorno mille cose sono tornate a galla con quell’etichetta di sofferenza inevitabile, con l’inconfondibile connotazione del ricordo tagliente. Gli strappi. Ecco. Così ho catalogato quei pensieri.
Quanti strappi possiamo sopportare? Con quale filo li possiamo rammendare? Mentre mi pongo domande difficili sento che le forze sono insufficienti a un lavoro di cucito così certosino e urgente. Perché alcuni strappi somigliano a disfacimenti, come l’abbandono precoce di me bambina in un territorio adulto, come la rinuncia alla vita da ragazza perché urgevano soluzioni da grandi. Altri sono tagli netti, come la perdita di un padre che muore troppo presto, di un amore che non poteva sopravvivere, di una terra che non ha offerto soluzioni, di una zia del cuore cui non basta più l’affetto.
Tornando da Livorno ho guidato con una mano sola per non lasciare quella di mia madre che mi sedeva accanto. Come se da quel contatto di superfici minime fluisse linfa di coraggio e pacificazione. Se dai miei anni ai suoi, dalle mie scorte di figlia cresciuta a pane e saggezza al suo esausto serbatoio di madre-sorella, o al contrario, questo devo ancora capirlo. Di certo c’è stato quel contatto e il suo beneficio momentaneo. Il resto arriverà fra un po’, perché gli abbandoni feriscono a rate: prima lacerano, poi sanguinano, dopo ancora macerano.
Tornate a casa ho abbracciato mia madre come mi capita di abbracciare gli alberi, attendendo conforto da forze lontane e telluriche. Le sue radici sono forti, i suoi rami meno. Si è appoggiata a me che ho fronde piene di dubbi e speranze. Ma è così che funziona. È così che sarà, da qui in poi.

 

 

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#secondapelle Racconti

Due parole

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Il dottor Palmieri quando successe il fatto era un medico condotto alle soglie della pensione. La sua carriera stava per concludersi, così finalmente si era concesso un premio: un’auto nuova, bellissima e color blu notte.
Proprio in quei giorni, subito dopo l’arrivo di quel premio, un tardo pomeriggio si presentò da lui l’attempato Modesto Bonaccorsi per chiedergli se potevano scambiare due parole. Quel pomeriggio il Palmieri aveva la sala d’attesa piena di persone attente all’ordine di arrivo. Per cui liquidò il Bonaccorsi con uno dei suoi sorrisi e le braccia allargate verso gli astanti già irrigiditi sulle sedie. Bonaccorsi, noto a tutti come un brav’uomo, non insistette né indugiò oltre. Anzi si fece indietro ossequioso e con un sorriso bonario chiese scusa a tutti e tornò a casa.
Due giorni dopo però il buon Modesto si presentò di mattina e, appena entrato nella sala d’aspetto, sorrise compiaciuto per aver contato davanti a sé soltanto tre persone. Poco dopo il dottor Palmieri si affacciò con un foglio in mano per chiamare il prossimo della lista. Bonaccorsi si alzò, fece mezzo inchino e quasi sussurrando disse:
– Quando mi tocca dottore, quelle due parole, si ricorda?
– Eh, ma io faccio due visite e poi scappo, Bonaccorsi. Scusi, ma c’è il picco d’influenza e sono pieno di appuntamenti. Torni domani o fra qualche giorno, va bene? Abbia pazienza, sa.
E richiuse la porta con energia e un rumore basso e profondo che a Modesto parve quello di un grosso sospiro.
Trascorse una settimana e il Palmieri, tutto preso dalle visite domiciliari e dagli ambulatori si dimenticò completamente dell’anziano Bonaccorsi e della sua richiesta.

Marzo era appena iniziato quando verso l’ora di pranzo, mentre tornava di corsa allo studio a riprendere le chiavi dell’auto dimenticate sulla scrivania, il Palmieri notò Modesto ritto sulla soglia ad aspettarlo.
– Bonaccorsi, mi aspettava?
– Dottore, scusi, è per quelle due parole che le volevo dire, se ha un momento …
Palmieri aveva fretta, la moglie e il figlio lo aspettavano per il pranzo ed era già in ritardo per quel piccolo contrattempo delle chiavi.
–  Bonaccorsi, mi deve perdonare, – disse il dottore – la famiglia mi aspetta a tavola e sono già in ritardo. Guardi, facciamo così: domani pomeriggio ho l’ambulatorio alle quattro. Venga qualche minuto prima così parliamo. D’accordo?
– Va bene, dottore, grazie, eh. La ringrazio tanto.
Ognuno prese la sua strada con un accenno di compiacimento; il dottore per aver trovato finalmente il tempo di ascoltarlo e Bonaccorsi per aver avuto un appuntamento per quelle due parole.
All’indomani pomeriggio il Palmieri entrò in studio oltre l’orario di apertura, trafelatissimo e con la fronte lucida. Dal suo angolo, Modesto Bonaccorsi lo guardò e vedendolo così in ritardo non ebbe il coraggio nemmeno di salutarlo. Attese per ore. Poi, stanco, se ne andò.
Il dottore lavorò fino a sera, poi a casa finalmente si rilassò. Una sigaretta clandestina sul balcone, un goccetto sorseggiato con lentezza, un bel sospiro che era quasi uno sbadiglio e finalmente il meritato riposo notturno.
Dopo due settimane il picco influenzale era definitivamente superato. L’inverno sfumava in una stagione di passaggio che animava il buonumore e in ambulatorio, come di consueto, i disturbi respiratori cominciavano a sfumare in quelli di stomaco.
Il pomeriggio di un venerdì, verso il tramonto, mentre il Palmieri si affrettava a chiudere lo studio, la signora Bonaccorsi gli andò incontro sulla strada raggiungendolo con passo timido alla berlina blu notte parcheggiata lungo il marciapiede.
– Dottore, dottore, chiedo scusa.
– Signora, buonasera, mi dica – fece lui guardando insistentemente l’orologio.
– Le rubo solo un attimo, dottore.
– Sto rientrando a casa, signora, è quasi ora di cena, ma mi dica, su, mi dica.
La donna, comprendendo la fretta del dottore, vinse l’imbarazzo e disse:
–   Le volevo dire di mio marito che l’ha sempre rispettata, sa, anche in punto di morte ha avuto un pensiero per lei.
Palmieri impallidì:
– Come in punto di morte?
– Eh, sì, poveretto, se n’è andato qualche settimana fa, di notte. Eravamo a Londra, da mio figlio.
La donna tirò fuori un fazzoletto dalla borsa, si asciugò gli occhi e si soffiò il naso mentre il Palmieri la fissava con aria sorpresa e una mano che era rimasta a mezz’aria fra il saluto e lo stupore.
La vedova Bonaccorsi continuò:
– Non voglio farla tardare, dottore, sono venuta solo a dirle che prima di spirare Modesto mi ha chiesto… – e sospirò.
Il Palmieri avrebbe voluto dire qualche parola di circostanza, ma non ne trovò nessuna e pensò allora che anziché balbettare qualche banalità fosse meglio restare in silenzio. La donna, che intanto gli aveva preso la mano e la stringeva fra le sue, con voce flebile concluse:
– Mi ha detto di ringraziarla tanto per quelle due parole. Ci teneva proprio che io venissi da lei. E io sono venuta, come promesso. Adesso la saluto, dottore.
Gli liberò la mano e sorridendo con gli occhi lucidi se ne tornò a casa.
Il Palmieri rimase per qualche minuto confuso e rammaricato. Così, mentre cercava di recuperare la lucidità, si avvicinò all’auto e vi si appoggiò senza soppesare bene la pressione, l’antifurto cominciò a suonare sguaiato e insistente. Trasalì allora e si affrettò a cercare la chiave nella tasca della giacca e a zittire quel frastuono fastidioso.
Salì in macchina, mise in moto e si avviò verso casa pensieroso. Si disse che avrebbe dovuto leggere il libretto delle istruzioni e imparare al più presto come regolare quel dannato antifurto. Dopo tutto, pensò, l’auto era sua già da un pezzo.

@giusi d’urso