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#secondapelle Racconti Scrittura

Amanda

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Nell’attimo che precede il risveglio vigile, un pensiero leggero, ancora onirico, impila, pianifica e stratifica fatti, nozioni, realtà e miraggi impantanati nei sogni. Incoscienza razionale, semi-lucidità creativa, eppure incorruttibile, nella precisione con cui mette in fila le faccende del quotidiano. Che ci fa la vita reale, con le sue beghe e i suoi programmi, negli ultimi preziosi istanti del sonno (e del sogno)? Qual è il suo ruolo? Quale la sua funzione?
L’uomo non sa rispondere e non si prende la briga di porvi rimedio. La domanda è retorica e mal posta, specialmente a quell’ora.
Si crogiola in quel limbo silenzioso che promette da dietro le palpebre un risveglio consono alla sua età. Mattiniero. Anche la domenica.
Si tira su con uno sbadiglio, il buongiorno a se stesso. Fuori è giorno appena. Dovrà riempire il tempo da lì alla visita con qualche faccenda che di certo non gli manca.
Amanda aspetta, nella stanzetta pulita e ordinata, contrappasso a una vita piena di inciampi e polvere.
Scende in cucina, la moka caricata la sera precedente lo attende fedele sul fornello. Da tre tazze, per non dare soddisfazione a quella solitudine che gli sta stretta. L’aroma del caffè e lo sbuffo appena fuori dal beccuccio sono promesse di una buona compagnia per la mattinata.
La tazzina fumante, il cellulare sempre acceso, ché non si sa mai, potrebbero chiamare di notte dalla casa di cura. Modalità vibrazione, così lo sente ronzare sul ripiano di legno anche dalla camera, tanto ha il sonno leggero. Il primo sorso di caffè amaro sorprende i suoi sensi, come ogni mattina da mezza vita. La prima volta senza zucchero fu terribile. Dovette rinegoziare con se stesso l’esperienza: tornare al cucchiaino di zucchero per ridurlo gradatamente, fino alla completa assenza di dolcezza. Lo aiutava a svegliarsi e a pensare lucidamente.
Sorseggia il caffè fumante e accende la tv automaticamente. Notizie. Come avvelenarsi la domenica e sapere di essere vivi in questo mondo che sembra impazzito. Un test quotidiano, esercizio di pazienza e sopportazione. Un’altra donna ammazzata per mano del suo uomo, migranti bloccati in mezzo al mare, incongruenze politiche, ingiustizie economiche. Disumanità. Un risveglio dissonante. Ma è così, lo accetta, amaro come il caffè. Il resto sembrerà più bello e salvifico.

Il cuore del padre di Amanda si fermò troppo presto, la madre divenne moglie ideale di un fattore, vedovo a sua volta e padre di quattro figli maschi.
Amanda, bimba adorata, adesso mamma deve pensare al tuo futuro, darti un padre e una nuova famiglia. Questa casa è troppo grande e vuota, una donna sola con una figlia ha bisogno di essere protetta.
Così, ci fu un matrimonio in campagna, prima dei raccolti, ché due mani in più non guastano. La terra è una fatica che pochi conoscono. Chi non si è mai sporcato le mani, né spezzato la schiena sulla terra non può sapere, non può capire, né immaginare.
Amanda crebbe in fretta tanto quanto i calli alle mani di sua madre. I quattro fratellastri, pure. Quello più grande era appena un uomo quando lei cominciò a sbocciare. Non erano fratelli, loro due. Erano estranei pur vivendo insieme. Amanda era bella, si lasciava guardare ma non si faceva toccare nemmeno per gioco, nemmeno da un fratello. Non siamo fratelli, ripeteva lui, ti voglio baciare, lasciati prendere.

La tazzina è rimasta vuota sul tavolo, come promemoria a cui l’uomo tornerà fra poco per finire il contenuto della moka. Ha ragione quando pensa che la solitudine è un contenitore accogliente, malgrado tutto. Comprerà una moka da cinque. O addirittura da sette, perché anche freddo il caffè non gli dispiace e perché potrebbe arrivare un amico, un ospite inatteso.
Si dedica al giardino, nonostante la giornata uggiosa. C’è quella pioggerella sottile e discontinua che smussa gli angoli all’afa del giorno prima e agghinda a festa l’erba lunga del prato. Quasi un peccato tagliarla mentre brilla di piccole perle lucide. Ma il tempo va riempito, altrimenti rischia di intorpidirsi coi ricordi. Amanda sta tutta intera nella sua memoria, dritta e bella. Il seno turgido, le gambe lunghe e muscolose di chi è cresciuto all’aria aperta. Prima bambina, scoordinata nei giochi in cortile, poi già donna con il ventre gonfio e l’espressione affranta di chi si porta appresso un fardello insopportabile.
L’uomo scaccia quel pensiero con un leggero movimento della testa. Se qualcuno osservasse da lontano, lo immaginerebbe infastidito da un insetto. Ma se i ricordi fossero mosche, cacciarli via sarebbe un gioco da ragazzi.

Nulla è prevedibile in amore. Amanda lo scoprì presto, insieme allo stordimento e lo sgomento di un figlio ad appena sedici anni. Fu uno scandalo. L’incesto lo è. Sotto lo stesso tetto. Con gli stessi genitori. Porcherie, solo schifose porcherie, indegne di una brava figlia. Non siamo fratelli, non è incesto, è amore. Amore, ma quale amore, assurdo chiamare così certe sconcezze! Figlia ingrata.
Il ragazzo fu allontanato per un po’. Il maschio non ha colpe. E’ cacciatore. Ma lei, la donna, una figlia di casa… La gente giudica, la gente parla, ricorda, non perdona.
Disconosciuta. Come suo figlio. Fuori dalla casa, fuori dalla vita della famiglia. Persino sua madre non fu più il suo porto sicuro.

Rinunciare all’abbraccio di una madre, un dolore insostenibile.

Il giardino ha decisamente un altro aspetto. L’uomo è soddisfatto. Torna alla moka, un altro caffè, poi la doccia e si prepara per Amanda. Mentre sceglie con cura cosa mettersi si sente un po’ ridicolo. Un ragazzino ultra-settantenne che ancora palpita e sospira per l’innamorata. E’ stata un’attesa lunghissima, la sua: il fattaccio del suo amico del podere accanto, poi l’allontanamento di lei e del suo bambino. Ripudiata. Inavvicinabile. Lui era rimasto a guardare e a soffrire senza poter fare altro. Ma il suo sguardo non si era distratto un attimo e al primo spiraglio su quel corridoio buio di maldicenze e di ripudi si era infilato nella sua vita, in punta di piedi. Senza pretendere amore, ché Amanda non era più capace di darne. Un accudimento da una distanza giusta, che non fosse causa di timori, ansie, brutti sospetti. Io sono qui. Mi avvicino solo se mi vuoi. Sono io quello che lascia alla madre superiora le mele appena colte. Sono io quello del formaggio e delle uova fresche per il tu bambino, io quello delle parole per te, lasciate nella cesta della frutta, senza la firma. Non chiedo di incontrarti, sottraggo la mia presenza ai tuoi demoni. Ti curo dal mio posto silenzioso.

Poi il vortice dell’oblio. Lui è rimasto a guardare la progressione dell’assenza e della dimenticanza e a sussurrarle poesie all’orecchio, ogni volta che ha potuto. Finalmente, vicino.

Eccolo al cancello della casa di cura. Gli viene incontro l’infermiera buona, quella che bada ai fiori freschi per la madonna in corridoio, davanti alla quale la lucidità di Amanda in un lampo ritorna e la fa genuflettere senza tentennamenti. Poi, dopo quell’attimo, torna nel suo inoppugnabile castello, occhi naufraghi, e lui al di qua del fossato, con la madonna e l’infermiera.
L’odore di pulito, con quel leggero e inconfondibile afrore di candeggina, accoglie i visitatori all’ingresso. Silenziosi, col sorriso delle visite stampato sul viso. La tristezza sarebbe un fardello di troppo, qui. C’è già tutto questo tempo, accumulato come polvere negli angoli, nebulizzato dal fiato degli anziani, di giorno in giorno, di anno in anno.
Sta bene, ha dormito stanotte, rassicura l’infermiera. È sempre molto gentile e, a volte, l’uomo si è chiesto se quelle frasi non siano di mera circostanza. Che bisogno c’è di allarmarmi, del resto, col penoso racconto di piccoli dolori, di pianti improvvisi e di richiami notturni? Amanda cerca sua madre e chiede di dormire con la luce accesa, al buio non sa dove trovare la bimba che era e che si è sperduta chissà dove.
Canta, Amanda, anche nella notte. Luce o buio, non fa differenza. La sua voce la porta indietro ai tempi felici, senza averne precisa coscienza: la scuola, suo padre e sua madre. Quegli affetti solo suoi. Senza l’obbligo di condivisione con altri che non hanno legami di sangue. Non siamo fratelli, ripete per ore, non siamo fratelli. E piange cullando il cuscino e d’improvviso lo butta per terra, seme di colpa e ripudio, mimando un rifiuto e un dolore insopportabili.

L’uomo la trova seduta con le mani incrociate sul ventre, tranquilla. Sono qui, sussurra, lei non lo vede. Lui accenna un sorriso e le prende una mano. Finalmente si guardano. Nel rapido, fugace istante del riconoscimento scorrono fotogrammi lisi per lei, fulgidi per lui. Giochi all’aperto, crescere insieme, carezze senza malizia, pudore e scompiglio, stupore, adolescenza, emozioni a pelle, l’odore di sapone che esala dalla pelle di lei, ti trovo anche se ti nascondi, no, non ti tocco, non è giusto, siamo amici, ti fidi di me, non ti tradisco. Poi, il fienile, l’altro su di lei, è successo, non sono fratelli.
Ripudiata, allontanata. Il figlio. L’abbandono.

Verdetto colpevole.

L’attimo del riconoscimento tacito fugge veloce, scende e scompare irrimediabilmente, risucchiato dal gorgo della dimenticanza. Lei ha già rimosso. Lui no. Resta seduto di fronte, imbastito al suo amore composto e tenace. Adesso è qui e lei lo sa, in un piccolo grumo di cellule fra cuore e cervello, un organo nato tardivo, come appendice salvifica. Lui apre un libro e recita Baudelaire a bassa voce. E sa che quel suono leggero arriverà dove deve.

©giusi d’urso

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#capoverso

Frutto amatissimo

IMG_7868C’è un pensiero che insiste e dice
di sé
cose che non chiedo, né desidero.
Se non arriva il giorno impazzirò.
Chi avrà mai colto il senso di una storia che desta
il sonno più profondo e insiste
per quelle stanze che d’improvviso sono
luminose come una primavera?
Chi sa per certo da dove arrivano le storie?
Le accolgo, assonnata, senza
la volontà di ricucire i lembi sgualciti del sonno
e, con memoria recente, scrivo senza penna né tastiera.
Scrivo di getto, rapida e schiva, l’urgenza ustiona
la pelle, tormenta le ore da qui all’alba, fino
al frutto amatissimo.
Poi, m’acquieto. Lo disconosco e a volte
lo detesto.
Fortissimamente. Taccio per ore
felice dopo il tormento.

©giusi d’urso

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#secondapelle Racconti Scrittura

In segreto, in silenzio

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La finestra è socchiusa e la sera di marzo – imprevisto chiaro di luna – riempie la stanza dalla fessura concessa alla situazione insolita. Lui non ha caldo. Lei sì. Non è stato sempre così, ma l’esatto contrario. Lui si scopre durante la notte, lei tira a sé le coperte, ne fa un bozzolo in cui maturare un riposo senza interruzioni né metamorfosi. Nelle sere di gioco e discorsi leggeri, interrotti dal fragore di risate che incoraggiano la vicinanza, lui accoglie i piedi gelati di lei. Allora c’è tempo e atmosfera per distribuire equamente il calore, bilanciare temperature e stati d’animo. Parlare e poi fare l’amore.
Ma adesso, no. È tempo di assecondarla, questa donna in attesa. Questo cilindro magico che promette dolore e tenerezze. Il lenzuolo segue la rotondità del ventre, scorrendo sul movimento regolare del respiro e lui resta accanto, sveglio. Non si può dormire di fronte a un programma così misterioso. E quindi, pazienza, non dormirà, ché diventare padre non è roba da poco.

Ricorda appena, l’uomo, l’arrivo della sorella. Quell’atmosfera d’irrequietezza che respirò per giorni attraverso discorsi imbastiti di parole sconosciute, cesareo, urgenza, pressione, degenza. Mamma non c’è, sta via per qualche giorno, poi torna con la sorellina, sei contento. Troppo piccolo per capire, troppo grande per l’indifferenza. No, non era contento. Mamma con un altro bambino. Una femmina, poi. Perché tutti davano per scontato che sarebbe stato contento? Sì, diventare il fratello maggiore gli insufflava in petto un’inspiegabile fierezza: maggiore, l’inizio di una qualche carriera, un primo scalino, una tacca in più sul muro, sei grande, adesso. Ma era proprio necessario portarsela a casa, quella, tenerla accanto a mamma notte e giorno?
Poi era nata e lui l’aveva vista entrando nella penombra in una stanza fresca e piena di stupore, il dito nella culla a cercare un contatto discreto. Non una coccola, solo un contatto per tastare quella pelle nuova, rossa e grinzosa. Il tatto dice tante cose. Il tatto è primitivo, libero da preconcetti, schietto e scrupoloso.
Come fanno a dire che sei bella?
La piccola gli strinse forte il dito e lui restò così per un tempo che gli sembrò infinito, fino a quando non si decise a chiedere come fare a liberarsi. Contrariato, vide che gli altri ridevano di lui.

Sdraiato su un fianco accanto alla sua donna pensa che la pancia tonda è un mappamondo di cui disconosce la geografia, nonostante i libri sfogliati insieme negli ultimi mesi. La superficie adesso è segnata da arterie blu, confini di territori sconosciuti. L’ombelico è sporgente, osservatorio in cima a un’enorme collina. La topografia di quel ventre rotondo lo distoglie da tutto il resto. Da settimane, ormai, rientrando a sera, attende quella liturgia: la trova stanca, piedi gonfi, schiena a pezzi, quel nuovo colorito che, scavalcando il naso, passa da una guancia all’altra come il ponte fra le sponde di un fiume. Si sdraia sul divano, la donna, cena sbadigliando e poi cerca il letto quasi a occhi chiusi. Il suo sonno, sotto il cuscino, pronto, profondo solo per qualche ora. E in questo tempo, con una parte di cervello e cuore che non sapeva di avere, l’uomo elabora serie infinite di dati di questa nuova mappa emozionale.

Il padre non sa. La madre sa tutto. Lo sa prima di esserlo. Quel silenzio lo dispone al tentativo di comunicare, come l’invito a un dialogo nuovo, sarò tuo figlio, chiamami con la tua voce. L’uomo se ne dichiara fuori per rispetto e inettitudine. Il suo dialogo lo fa senza alcun suono, ché sarebbe già troppo anche un solo filo di cotone fra loro due, pensa, fra il progetto e il suo tenace artigiano.
Lui si fa trasparente. Parla in silenzio, in segreto.

Ho qui, fra gola e costole, una specie di rammarico per ciò che mi sfugge e che forse ti aspetti da me. Non dirò del mondo, né di previsioni sul futuro, di cotte alle elementari, di sgridate dopo le marachelle. Non so niente e immaginare è un diritto che lascio a chi ti nutre. Il padre non sa niente. Impara da questo rammarico che un po’ soffoca e un po’ entusiasma.

Una nuvola toglie alterigia alla luna. La sera ora è una notte buia.

Dopo un incubo suo padre era accorso nel buio, non è niente, è solo un brutto sogno. E lui, sudato e impaurito, non riusciva a parlare. Chissà quali fantasmi gli avevano addentato gambe e braccia, chissà quale rugghio gli era riecheggiato nell’orecchio e nel cuore, insieme alla vergogna per quella paura, per il pianto.
Ma papà è qui, papà è forte, eccomi, non c’è niente da temere.
Un’altra notte, sua madre aveva preceduto il conato, bacinella pronta e mano sulla fronte. Ancora prima di un sussurro. Il malessere era nel respiro e l’allerta un richiamo sottile infilatosi fra il cuscino e il sonno di lei. Prima dell’accaduto, lei c’era. La madre sa tutto. Lo sa prima.

Io invece non so niente.

In silenzio, in segreto, il dialogo fluisce senza coscienza di una meta, solo con la speranza del perdono preventivo. Ecco, ti volevo dire che non ho coraggio, non sono forte e il buio mi mette a disagio. Ho il sonno pesante, anche se da settimane non riesco più a dormire. Perché, vedi, questo è uno strano passaggio. È diventare uomo grazie a un bambino. Che ci si senta pronti o no. Un battesimo, no, che dico, un’epifania. Ho perso mio padre e ora avrò te. Ci penso appena fa buio, forse l’oscurità rivela nuovi panorami di esperienze e nostalgie. E quindi, mentre penso a lui che non c’è più, arrivi tu, con una forza su cui non ho controllo. Cresci dentro tua madre e sai di lei ciò che io ignoro. Annusi i suoi umori da dentro, ti nutri dal suo sangue, sintonizzi il sonno sul suo battito, ti dondoli sul suo respiro. Tu basti a lei e lei a te.

Sgomento, l’uomo chiude gli occhi.

Il cavaliere forte aveva affrontato con coraggio anche la fine. Il figlio, senza spada né scudo, lo aveva accompagnato. Eccomi, papà, sono con te. Il respiro si era fatto lento e lievissimo fino a scomparire, ma fra ogni battito c’era stato il tempo di un abbraccio, di quella tenerezza che fra uomini non usa, invece adesso è necessaria, papà, e io ti voglio dare tutti i baci che non ti ho mai dato. Sui capelli bianchi, disciplinati dal tempo, sulle gote lisce di vecchiaia e sulle mani scarnificate dai digiuni e dai dolori. Mio cavaliere, forte e coraggioso, ti accompagno fino a dove posso.

Il vero dolore, quando perdi un padre, è sapere che fra te e la vita non c’è più nessuno pronto a prendere la spada e correre a salvarti.

C’è ancora un’attesa da tollerare, dietro questa grande finestra di vetro. Ti ho intravisto fra i sussulti di una commozione nuova. Troppa luce per te, gliel’ho detto. Hanno sorriso di me e ti hanno portato altrove. Mi sono ritrovato subito fuori dalla sala parto e lei non mi ha salutato, era assopita. Era già tua.
La tenda è spessa e non lascia intravedere se non le sagome delle culle. Poi qualcuno ha pietà di me e degli altri uomini che si allenano da poche ore a congratulazioni e pacche sulla spalla. La tenda si apre, l’infermiera sorride. Ti prende in braccio per secondo e io penso che la bambina appena venuta al mondo ti ha già scavalcato. Arrivano sempre prima, sappilo.
Hai pochi capelli, il naso piccolo è di tua madre, così come la forma del viso. Vorrei ripeterti quel discorsetto che ti ho fatto l’altra sera. Ma tutta questa luce, così potente e fulgida, mi ammutolisce. Insieme allo sguardo attento su di te che mi sottrae energie, come il timore che le braccia di quella donna in camice che ti tira su come fossi in vendita non siano abbastanza forti e protettive.
Ed eccomi, dunque, in silenzio e senza più segreti, fra te e la vita.

 

© giusi d’urso

 

 

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Sinfonia per una notte

IMG_2534Si è svegliata di buona lena che albeggia appena. Il sonno è un mezzo. Il riposo, l’obiettivo. E quello, al momento, lo raggiunge anche in sole quattro, cinque ore di sonno.
L’aria è fresca, la luce ha fretta di illuminare il cielo a giorno e lei non vuole perdersi la poesia. È suo, quell’attimo in cui la città si spoglia degli ultimi capricci di luna e, luminosa di marmi e bella di vicoli e lungarni, appare in ogni suo dettaglio.
Ogni mattina, dal lunedì al sabato, la ragazza attende quel momento sugli scalini della chiesa dei Cavalieri, mani occupate da due coccole calde comprate in Borgo Stretto, brioche e caffè, zaino sulle spalle. Occhi attenti: ecco il suo attimo. Bellissimo. Irrinunciabile.

Riflette sul cammino quotidiano, da casa solo qualche minuto. Un netturbino spazza gli angoli di piazza Garibaldi. Il centro che si sveglia, si stiracchia e sbadiglia, in quel buio già contaminato da saracinesche tirate su a metà.
Adesso è qui, seduta sul suo scalino, nella sua piazza, poco prima d’essere fagocitata dai doveri. I pensieri sono ancora disciplinati, rispettano il loro turno, l’appetito mattutino mette di buonumore, i libri sulle spalle non hanno avuto ancora il tempo di farsi pesanti. Il peso, pensa, deve avere una qualche relazione con il tempo. A sera lo zaino è più pesante. Massa per accelerazione di gravità: stessa massa, stessa g, eppure …

Cosa accade dopo?

Biblioteca. Non una a caso, no. Biblioteca della Scuola Normale. E non perché frequenti la Scuola, no. Non sarebbe possibile, non sarebbe all’altezza, non ne avrebbe i numeri, né i tempi. Amen. Nessun cruccio, nessun rimpianto, va bene così. Almeno, però, datemi un posto silenzioso in cui studiare. Datemi la profondità di un silenzio in cui le parole hanno il suono pulito. Palazzo dell’Orologio, pieno di fantasmi cari a Dante. Difficile trovare un silenzio più profondo di questo. Datemi uno spazio in cui i composti organici, i miei fantasmi, prendano forma davanti a me, ché sul quaderno sono piatti e non mi torna più niente. Pentosi: cinque atomi di carbonio. Esosi: sei C. Esagerati! Pensa, e sorride di quella licenza che si è appena concessa. Poi torna subito sul testo, Ugolino non è dell’umore giusto, e poi l’esame è vicino, la distrazione è cattiva consigliera e pessima compagna di studio.

La scelta di continuare gli studi è il suo tatuaggio. Sulle gambe forti e veloci, ali da uccello migratore. Pelle giovane, occhi svegli all’alba. La tenacia, il migliore tatuatore sulla piazza. Poco sonno ed energie da vendere. Se la distanza oggi è tanta, si prende la bici. Se la bici è sgonfia, si va a piedi. Se piove, si prende l’ombrello, no, meglio una giacca con cappuccio per tenere le mani libere. Prendere il caffè, salutare, soffiarsi il naso, infilare le mani in tasca se fa freddo.

Dopo le mattine in biblioteca, interrotte dalle lezioni, quando può, c’è un panino veloce in un bar di via Santa Maria. Ciao, ma dov’eri, ti cercavo per gli appunti. Nel pomeriggio vieni in laboratorio. No, devo lavorare, farò le fotocopie dal tuo quaderno. L’estenuante dialettica delle tredici e trenta che argomenta senza svelare, con quel garbo persuasivo di chi non ama stare da solo ma deve sfruttare al massimo ogni minuto.
L’agenzia immobiliare fino alle diciannove, dal lunedì al giovedì, un comodo part-time. Il resto dei pomeriggi è per le ripetizioni. I ragazzini si susseguono e si accavallano dalle quindici in poi. In una stanza chimica, nell’altra matematica o scienze. Capita, ogni tanto, anche qualche ripetizione di francese, lingua adorata, mai utilizzata se non per aiutare qualche studente delle medie. La chimica richiede la sua stanza, scaffali per i libri di stechiometria, tavola periodica in triplice copia, lavagna bianca con pennarelli colorati che dopo un po’ gonfiano le tonsille. La chimica ha esigenze speciali. Quella stanza non si presta ad altro, così come l’attenzione è dedicata, non si condivide con altre discipline.
C sei H dodici O sei, che la glicolisi abbia inizio. Il ragazzo del liceo non memorizza formule e reazioni, lei s’impegna perché se ne innamori. Noi siamo questo, gli dice, chimica organica in un corpo che vive, kemà, al-kimiaabios, senti che bel suono queste parole. La biochimica è una sinfonia, è il prodotto di un’orchestra perfetta.
Forse riesce a farlo innamorare, o forse la sua esaltazione lo innervosisce. Vedrà come andrà il compito a scuola, vedrà.

Le sere e i fine settimana sono per lo studio intenso. Sotto esame niente amici, niente pizza, niente musica.
Ma l’invito arriva e lei ne è tentata. Un nuovo amico, studia legge, ci prova, dice lui. Simpatico, auto-ironico, ha perso da poco il padre e si è allontanato da casa per capire cosa fare da grande. Suona il flauto traverso. La invita, insieme ad altri amici, a fare una pizza tutti insieme.

Sabato sera, l’esame fra una settimana, lei conta le ore di studio rimaste. Poche, come sempre. Ma l’invito la tenta. Una serata leggera. Magari lui suonerà il flauto. Accetta.

Da bambina voleva fare la pianista. Piccolissima, gambe penzoloni sullo sgabello sempre troppo alto. Mora, attenta, emotiva davanti ai tasti. Minuscola pianista in erba, grandi occhi, grande cuore, poco coraggio. Il maestro burbero, nessuna tenerezza, nessuna pietà. Metodo punitivo: se ti mortifichi ricordi, se soffri un po’ impari. Imparava lentamente, mani paralizzate da critiche che erano invettive. Non poteva capire. Non poteva imparare. Smise per altri motivi, non per lui. Infanzia complicata. Si sappia, non per lui.

L’invito arriva e lei accetta. Per nostalgia.

La farina bianca c’è, qualcuno porta i pomodori pelati, lei ha la mozzarella, sembra di plastica ma in forno fila. La ragazza del quaderno di laboratorio ha portato la birra. Tutti hanno dimenticato il lievito. Senza lievito, niente pizza, ridono ma sono un po’ delusi. E ora? Non importa, dice lei, con la bici è un attimo, a casa mia madre lo avrà sicuramente.
In un baleno, torna e si mettono a impastare. La musica dallo stereo arriva fino alla cucina. Rock duro, non è il suo preferito, ma dà un bel ritmo al lavoro. Ognuno si è scelto un’occupazione. Il flautista, lava il basilico con le sue dita magre e poi lo asciuga prima di tuffarlo fra i pelati. Lei pensa alla percezione tattile del basilico e a una melodia impercettibile all’orecchio umano. Sì, anche le foglie del basilico sotto quelle dita suonano.
Il forno già caldo attende.

Le chiacchiere forgiano un’armonia di stagno fuso che addolcisce gli spigoli del pezzo rock e lo rende meno duro. Gli amici vi parlano sopra come ballerini leggeri su una pista da ballo. Le risate del gruppo si arrampicano lungo i crescendo della musica, dondolano appena, in bilico sull’acuto del cantante, l’equilibrio di un secondo, per poi scivolare con senso di liberazione verso i bassi. Finisce l’ennesimo pezzo. La pizza è pronta. Il profumo diffonde rapidamente dal naso all’amigdala, fino a invadere il cuore.

È lei quel piccolo cosetto saltellante seduto sulle ginocchia della zia? È proprio lei. Codine nere lucide ai lati della testa tonda. Pane caldo, olio, sale, origano. È domenica sera. La zia e la nonna a casa nostra. Un’altra casa, un’altra terra, altre appartenenze. Papà e mamma allegri.
Quanto tempo è passato? Non sa. Giusto il tempo di un trasferimento, la migrazione tanto attesa. Il tempo di apprezzare solitudini e cucirsi il cuore dentro il petto per non farlo scappare via quando comincia a scalpitare.
Poi, i piedi tornano per terra. La nuova vita ha le sue asperità. Ognuno fa i conti con ubbie e paure. Tutto è faticoso come un imprevisto. Dopo il liceo, lettere. No, meglio biologia, offre di più. E la scrittura? Dopo, vedrai, ci sarà tempo anche per quella. Lei va, inizia a diventare grande. Lavora e studia. Senza ripensamenti.

Pizza e birra. Poi si sparecchia. Il bivacco intorno alla stufa elettrica. Le chiacchiere e le risate si impanano al fumo di qualche sigaretta. Lo studio è argomento da evitare in tutti i modi. Stasera, relax. A costo di costringere i pensieri a faticosi contorsionismi.

La ragazza è sul tappeto, gambe distese e incrociate, schiena appoggiata al fianco del divano. Il flauto è la speranza del suo udito stanco. Qualcuno è già andato via. Sono rimasti in pochi, l’ora è tarda. Devo studiare, pensa, ma dimentica appena lo strumento lascia la sua custodia, i pezzi si accorpano nello spazio davanti a lei.
Il suono si fa attendere, lascia che qualche soffio e qualche aggiustamento lo precedano, come fedeli servitori il re. Poi, la sinfonia.

E la meraviglia.

Rientra in punta di piedi. È molto tardi. La casa e il resto della famiglia, immersi in un sonno vischioso. Intravede lo zaino in un angolo della camera e pensa che la luce del lampione dalle due stecche superiori dell’avvolgibile la stia richiamando all’ordine. Domani, pensa. La giornata sarà più proficua.
Chiude gli occhi, Mozart, sinfonia numero quaranta in sol minore, ritorna in mente e resta lì con lei a lungo prima del sonno.
Per il riposo, lo sa, bastano poche ore.

 

© giusi d’urso

 

 

 

 

 

 

 

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Voi due sapete

IMG_2409Voi due sapete che cos’è l’amore?
Si è detto già tutto, eppure niente assomiglia a tutto questo.
Che sia io a volerlo dire a voi è solo un capriccio
dell’età
che mi fa sentire navigata. Di una navigazione
incerta e imprevedibile.
Voi non sapete che cos’è l’amore, e non lo so neanch’io.
Ma tale è la speranza d’impararlo che mi avventuro nel futuro vostro, senza diritto alcuno.
È coraggio, l’amore. Coraggio incosciente, navigazione a vista,
sale disciolto che sedimenterà.
Girasole cieco in fondo a un campo senza sole. Astro di se stesso. Punto.
È un setaccio. Filtra, seleziona,
rende ciechi, esalta intuiti rettiliani.
Scoperta che incanta e che innamora i sensi,
tacita critiche e scova adorabili difetti. Memoria di un’amigdala siamese.
Nessuno ve lo spiegherà due volte, perché nessuno
se n’è mai fatto idea duplice.
Non è come le rughe, che hanno territori prediletti.
L’amore sfugge alle mappe.
Odora di follia e desiderio di buon senso.
Discrimina, censisce, sceglie.
E poi reclama ardore come un serbatoio in secca.
Questo è l’amore? Chiedetelo domani al primo passante distratto
e vi dirà l’esatto contrario del mio dire.
Quello che non ho saputo declinare, voi due lo scoprirete insieme.

 

© giusi d’urso

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Il mondo sotto un ombrellone

IMG_5630.JPGAndare in vacanza. Allontanarsi dalla quotidianità. Fare altro. Dedicarsi a leggere, osservare, riflettere, dormire. Scardinare i ritmi consueti per cucirne altri senza osservanza delle regole, in quel modo un po’ caotico che fa bene al cuore e che stordisce l’anima.

Andare in vacanza. Prendere la distanza dalla propria routine che, per quanto scelta e ponderata, alla lunga diventa ciò da cui, esausta, mi voglio e mi devo allontanare.  Spostarsi su un’isola è il massimo: il mare di mezzo, un’enorme massa d’acqua fra me e il quotidiano. Lontana e irraggiungibile, la mia personale metafisica degli spazi.

In quest’estate calda e capricciosa, che ribolle di preoccupanti rigurgiti contro l’umanità, unica e trasversale impronta da salvaguardare, mi trovo in Sardegna. Isolana di nascita in un’isola non mia, bellissima quanto la mia. Mare (e che mare!), giusta distanza tra me e il resto, dune, acqua cristallina de La Cinta, molteplicità degli individui intorno, brezza marina che asciuga l’aria e il tempo, tanto tempo libero.

Accanto al mio ombrellone, una comitiva giovane: due coppie, ognuna con il proprio pargolo. Adulti coetanei. Bambini, lo stesso. Madri novelle, padri impacciati ma volenterosi, cuccioli al di sotto dei due anni. Uno gattona e si alza in piedi con facilità, tenta qualche passo sulla sabbia, ma scotta e cede sotto i piedini. La osserva, ne è incuriosito ed emette gioioso piccoli suoni acuti scoprendo i due incisivi superiori. Allarga le braccia con le manine aperte come dire guarda mamma, questa cosa sotto i piedi si muove, cado. Ma non importa, mamma, resto qui seduto a giocare con paletta e secchiello. Alessio è bravo, è vispo. Alessio è avanti. Quanto è bravo Alessio, orgoglio di mamma e papà.

Giulio, l’altro bimbo, non si muove, non si tira su e non gorgheggia. È disteso sul telo di Spiderman, la bocca semiaperta, ruota lo sguardo di qua e di là, gira la testa verso Alessio sentendo i suoi gridolini allegri. Sorride, qualche dentino in più, muove lentamente le manine sopra di sé in modo scomposto, come quando si gioca a moscacieca. Giulio sta lì, sdraiato sulla schiena e sorride.

La mamma di Alessio, snella di una magrezza curata e tatuata, nel suo minuscolo duepezzi parla a volume altissimo della cena precedente. La grigliata di pesce era costosa ma buona, vero Alessio, si gira di continuo a chiedere conferma al suo piccolo mentre lui continua a giocare con paletta e secchiello. Vero quant’erano buone le seppie, amorino di mamma, tutto buono, ha assaggiato tutto anche lui, vero ciccino mio. Il bambino è disinteressato, nonostante i continui richiami, è intento a sperimentare i giochi con la sabbia, a stupirsi di tutti quei minuscoli granelli di sabbia a disposizione. La mamma non demorde e continua a sollecitarlo a gran voce. Viene voglia di chiedere ad Alessio il favore di risponderle, così magari la finisce. Anche Giulio sembra immune allo sproloquio di questa giovane donna che rende partecipi tutti noi delle sue esperienze gastronomiche recenti.

La mamma di Giulio ha le forme morbide, rotonde, costume intero, più pratico per tirar su il suo bambino, girarlo sul fianco, prenderlo in braccio. Perché Giulio non cammina, non si tira su, non fa le capriole sul telo di Spiderman e non gioca con la sabbia. Questa mamma parla poco, ascolta, l’espressione dolce, conciliante. Sembra possedere un senso estremo di tolleranza e bontà. Una generosa propensione a capire e assecondare, forse nata insieme a suo figlio, oppure con lei, a sua totale insaputa. E con lui, questa propensione, cresce e si fa enorme, accanto a un amore che sognava diverso, ma che ha imparato ad accettare e ad accogliere.

Gli sguardi dei bambini, finalmente, si incrociano e Alessio urla Lu!, agitando le manine e sorridendo a Giulio. Lu! Lu! – ripete felice per quel suono nuovo e per la fortunata congiuntura fra suono e sguardo. La madre chiacchierona si gira e battendo le mani lo gratifica per quella conquista. Bravo Alessio! Dai, riprova: Giu-lio! Come si chiama, dai, Ale, dillo di nuovo: Giu-lio, Giu-lio, Giu-lio. Hai sentito, chiede alla mamma silenziosa. Hai sentito quant’è bravo, ha imparato a chiamarlo.  Alessio intanto è tornato al suo idillio coi granelli di sabbia e non si gira più. Allora la mamma inizia a strattonarlo, gli prende la testa fra le mani per catturare il suo sguardo: forza, dai, ridillo amore bello di mamma, Giu-lio, Giulio.

L’altra madre, in silenzio e con movimenti misurati, cambia il pannolone al suo piccolo. Gli sorride, gli parla con l’unico linguaggio possibile fatto di sguardi, espressioni amorevoli, carezze e coccole. Linguaggio universale. Li guardo: è un incantesimo. Giulio vede solo lei. Lei vede solo Giulio. A bocca chiusa intona un motivo dolce che dal mio ombrellone odo a stento. È la loro canzone.

La mamma di Alessio annuncia a tutta la spiaggia che suo figlio ha fatto la cacca e l’incantesimo si rompe. Lo stende sul telo, mentre lui protesta per aver dovuto interrompere il gioco con la sabbia. Comincia a scalciare e a piagnucolare e la madre lo redarguisce con la grazia che già mi immaginavo: e dai che sei sporco, cazzo, ma quanta ne fai!

Davanti ai miei occhi (e non solo i miei), si dispiega questo insolito presepe estivo e pagano. Tutti noi siamo pastori increduli, meticolosamente informati sulla quantità e la consistenza delle feci di Alessio, personaggio delizioso sotto un ombrellone affollato da una strabiliante biodiversità umana. Il bambino sembra divertirsi un mondo, afferra il pannolone e ne spalma il contenuto dappertutto. La bestemmia della mamma è già fuori dai denti ancora prima che apra la bocca e riecheggia fra i bagnanti a un volume ancora più alto del mantra precedente: Giu-lio.

Odio le bestemmie. Sono atea e odio le bestemmie. Offensive e irrispettose per chi ha fede e sconcertanti per chi non l’ha, offendendo un dio di cui non si avverte il conforto.

L’altra donna, il cui sguardo rapito non ha ancora abbandonato quello del suo bambino – àncora di salvezza, rete sotto il trapezio, mano che guida, ala che sostiene il volo – prende suo figlio fra le braccia e lo culla lentamente. La testina nell’incavo fra braccio e seno, il posto più sicuro del mondo. Le ginocchia magrissime e vicine, a piegarsi sull’altro braccio della madre. Il tronco adagiato sulle sue ginocchia. Una madonna e il suo bambino. Una pietà sotto l’ombrellone, su una spiaggia affollata in una calda giornata d’agosto. Un piccolo cristo che sconta i peccati di questo mondo rumoroso e sciatto, col coraggio che sua madre gli infonde. Una madonna che accetta il supplizio del figlio e il suo, con il cuore pieno d’amore.

Cerco di distogliere lo sguardo da quella scena che fa tanto male. Mi rendo conto di non sentire più né urli, né bestemmie, né schiamazzi. Non posso più restare lì, l’aria si è fatta densa, la luce troppo forte, la vista di quella surreale rappresentazione del mondo sotto l’ombrellone mi è insopportabile. Mi alzo e vado a passeggiare sulla battigia. La Cinta è una spiaggia bellissima, lunga e morbida: mi accoglie, mi invita a camminare. E io cammino, meditabonda, a lungo. Rifletto. Mi commuovo e piango.

 

© giusi d’urso

 

 

Pubblicato da Lifestyle – Made in Italy