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#secondapelle romanzo Romanzo - Se camminare fa troppo rumore

Intervista

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#altrove ho letto un libro

Social Fame è un libro necessario

Social Fame di Laura Dalla Ragione e Raffaella Vanzetta è un libro importante, utile, ben scritto. L’ho presentato nel mio studio dopo l’uscita e oggi ne parlo su Quaerere che ringrazio per la cura.

Il Pensiero Scientifico Editore

All’inizio dell’estate, ho letto Social Fame, Adolescenza, social media e disturbi alimentari di Laura Dalla Ragione e Raffaella Vanzetta, pubblicato da Il Pensiero Scientifico Editore. Delle due autrici e curatrici avevo già letto diversi lavori, fra saggi e articoli, soprattutto per interesse professionale. La lettura di questo testo però ha assunto da subito una connotazione particolare e non solo perché sono una nutrizionista. Di saggi sui disturbi della condotta alimentare ne ho letti molti, ma questo mi è sembrato un testo imprescindibile, uno di quei libri da diffondere il più possibile e di cui parlare in ogni contesto educativo. Per questo, i primi di luglio ho invitato nel mio studio colleghi, lettori comuni, genitori, studenti, educatori a confrontarsi sui temi del libro insieme a una delle autrici, Laura Dalla Ragione, che si è collegata da remoto. Mi è parso un tempo speso bene, un modo utile e interessante di affrontare la questione dei disturbi alimentari e dei social media da punti di vista diversi, in certi casi anche molto distanti fra loro, ma allo stesso modo importanti e necessari.

Ho riflettuto molto poi su quel momento e su come questo testo così importante sia in grado di illuminare certi spazi oscuri relativi alla vita e alle ansie dei nostri ragazzi. 

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#secondapelle Racconti Scrittura

Rombo di tuono

L’accesso dal piccolo terrazzo sul retro è il più sicuro, oltre che il più semplice. La porta finestra è classica, maniglia d’alluminio e serratura facile, di quelle che basta una forcina, ci si fa anche con i guanti di polietilene.
N. lo sa, ha studiato i particolari il giorno prima.
La coppia è uscita presto, come ogni giorno. N. ha aspettato che il condominio fosse di nuovo silenzioso, dopo le colazioni, dopo le uscite frettolose, le lagne dei bambini, i baci asciutti delle coppie. Andate tutti in culo, ha pensato, levatevi dalle palle che ho da fare.
Si è dovuto arrampicare poco, fino al piano rialzato; più che un’arrampicata è stata una passeggiata. Gli scemi stanno così bassi e non hanno neanche una serratura di sicurezza. Con quella, magari a un secondo o terzo piano, si sarebbe divertito di più. Ma adesso è dentro, bisogna sbrigarsi e e tornare giù.

Non c’è l’ansia, questa volta, a dargli quel brivido alla nuca, a metà fra il solletico e il dolore; forse solo una lieve vertigine che si esaurisce non appena N. mette piede nell’appartamento.
Il tavolo della cucina è ancora apparecchiato, due tazze con il fondo del caffè appiccicato, le briciole dei biscotti sulla tovaglia stampigliata male, roba scadente, da negozio cinese. N. storce la bocca. A casa sua, la mattina, c’è sempre una tovaglia pulita, perfettamente stirata; prima di uscire si rimette tutto a posto, sua madre odia trovare la cucina in disordine al rientro la sera. Sua madre odia sentire suo padre urlare e sbattere le porte per la cucina in disordine al rientro la sera.
N. procede verso la zona notte curiosando fra i ripiani dei mobili e gli armadi. Il letto è sfatto. Questi maiali vanno via così al mattino, come se non dovessero mai rientrare, come se la casa fosse un dormitorio. In bagno c’è un accappatoio per terra, un ciuffo di capelli lunghi e scuri a forma di s nel lavabo. N. con l’indice gli dà la forma della sua iniziale e fa una smorfia di disgusto.
Torna in camera da letto. Ha portato una sporta di stoffa, di quelle che sua madre accumula nei cassetti; ne porta a casa almeno una ogni volta che riesce a prendere un treno e andare a una fiera del libro. Al ritorno la svuota subito, strappa gli scontrini perché suo padre non monti su una scenata su quelle spese inutili, la piega e la ripone con le altre. Sono belle, dice, ecologiche, si lavano in lavatrice a freddo. Ecco, pensa N., dopo la lavo in lavatrice e gliela rimetto a posto, che tutta presa com’è dalle camicie di mio padre, manco se ne accorge.
Tiene in una mano la borsa e si concentra sulla cassettiera interna dell’armadio. Un paio di anelli d’oro, niente brillanti, molta bigiotteria. Avranno una cassaforte, da qualche parte, dietro il solito quadro insignificante, ma non gli interessa. Qualche abito firmato, un paio di cravatte Armani, due foulard Gucci, un orologio, ecco, un Garmin che forse vale la pena portare via.

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Ha già finito e non si è divertito. Come la volta scorsa, si chiede perché lo ha fatto.
Sbuffa, sfila il cellulare dalla tasca, dà un’occhiata alle notifiche. Si appoggia alla parete vicino alla finestra, ascolta un audio di V., che la sera prima non si è neanche accorta di straparlare, fra una pasticca e una vodka alla pesca. Ha la voce da oltretomba, non si capisce niente, forse si starà chiedendo anche lei perché fa certe cose.
N. rimette il telefono in tasca e con un dito scosta appena la tenda, attirato dal rombo di una moto. È lontana ma non troppo, sta arrivando. Guarda il palazzo di fronte, le finestre sono tutte chiuse. In strada, due passanti vanno di corsa, sguardo in terra, sono già spariti.
La moto si avvicina, N. ne immagina il modello, Yamaha YZF-R1, vediamo se indovina. Sorride, pregusta il momento in cui la vedrà sfrecciare giù in strada, ecco un divertimento. Rombo di tuono gli viene in mente, e Chuck Norris che non c’entra niente, che film di merda. N. sorride, ecco che arriva, rombo Yamaha, quanto è bella. La vede sbucare dall’angolo e avvicinarsi veloce e nervosa. Poi, lo schianto. Poi un silenzio che sembra il posto migliore per depositare le domande.

Perché la vecchia ha attraversato proprio adesso? Da dov’è sbucata? Vedi che succede, nonna, a sbagliare il momento, ti ritrovi con la testa rotta. Mia nonna, invece, è morta nel letto di un ospedale che manco c’ero, e mi è dispiaciuto, ecco. Ho sbagliato il momento, come te. Ce l’hai un nipote, tu, oppure abiti da sola?
N. ha spostato lo sguardo sulla moto che dopo aver fatto un mezzo giro per terra, inclinata sul ginocchio del centauro, si è fermata. L’uomo ha alzato un attimo la visiera del casco, ha fissato la donna immobile sull’asfalto, si è guardato intorno ed è ripartito a gran velocità. Rombo di tuono.
N. lo ha seguito con lo sguardo osservando la ruota posteriore della moto sgusciare un po’ a destra, un po’ a sinistra fino a riprendere l’equilibrio perfetto.
La vecchia è rimasta sull’asfalto. Nessuno ha visto nulla. N. guarda con attenzione la facciata del palazzo di fronte, una finestra dopo l’altra, niente, nessuno.
Scuote la testa. Cazzo, che moto.

Invece, una finestra di fronte, al terzo piano ha un lembo di tenda scostato appena. L. vede la vecchia per terra, la macchia rossa che si allarga sotto la testa, e un’ombra dietro le tende della finestra al piano rialzato. I coniugi F. sono usciti anche stamattina, come al solito, di corsa, salutandosi con la consueta freddezza e la solita espressione annoiata. L. alza le spalle e le lascia ricadere espirando dalle narici dilatate, mentre toglie il grembiule e lo appende alla spalliera di una sedia.
La vecchia è immobile. Non avrà sofferto. L. pensa che di tutte le morti che aveva immaginato per lei, conclude che quella è la migliore.
Si cambia le scarpe, scende nell’atrio ed esce dal retro.

N. si allontana dalla finestra, va verso la cucina. C’è un gran silenzio, solo il rumore ovattato delle sue scarpe di gomma sul pavimento. Fra poco, immagina N., qualcuno urlerà, poi arriverà un’ambulanza, poi la polizia. Ma adesso in questa cucina c’è un gran silenzio; vorrebbe sedersi un attimo, farsi un caffè, dire a qualcuno che non ce la fa più. Invece si dirige rapido verso la porta finestra. Poi, all’improvviso si ferma, torna indietro alla tavola apparecchiata, impila le tazze e le ripone nell’acquaio.

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#altrove #testolibero

L’orto come modo di essere, vedere e vivere – Dall’orto al mondo, di Barbara Bernardini

In questi giorni ho letto per la seconda volta il libro di Barbara Bernardini, Dall’orto al mondo. Piccolo manuale di resistenza ecologica, recentemente pubblicato da nottetempo.

L’ho letto due volte perché la rilettura è il tempo della riflessione, dei collegamenti ad altre letture, degli appunti scritti sul margine. Concede peraltro la libertà di andare avanti e tornare indietro, prescindendo dall’ordine in cui il testo è stato scritto, procedendo con l’unica voglia di farsi cambiare da ciò che si legge, di metabolizzarne lentamente ogni pagina, ogni parola. Così, questo testo è diventato, oltre che il mio manuale di resistenza ecologica, anche un esorcismo alla rapidità vertiginosa del tempo e del lavoro finalizzati a produttività e performance.

A questo libro voglio bene per molti motivi, primo fra tutti i temi trattati; e non solo perché sono biologa, ma perché credo che parlare di orti, ambiente, biodiversità e buone pratiche sia urgente e di interesse assolutamente collettivo.

C’è anche il fatto che Barbara Bernardini scrive benissimo e che ogni concetto affrontato nel suo libro risulta chiaro e invoglia all’approfondimento.

Ma voglio bene a questo libro anche per altre ragioni. Di seguito proverò a parlarvene meglio che posso.

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#secondapelle #spiragli Scrittura

Il prodigio. Riflessioni e spiragli

il film

Il prodigio, diretto da Sebastián Lelio.
Siamo nel 1862. Lib Wright (Florence Pugh) è un’infermiera che ha fatto esperienza negli ospedali da campo della guerra in Crimea. La donna, che sta ancora elaborando il dolore per la perdita di un figlio, viene assunta da una particolare “commissione” in una piccola comunità irlandese, povera e chiusa al progresso, al fine di osservare un “prodigio”: Anna, una bambina di undici anni, ha smesso di mangiare da quattro mesi e nonostante il digiuno prolungato, è in buona salute, in quanto, tutti sostengono, tenuta in vita dal nutrimento divino. La speciale commissione composta dal prete, dal medico condotto e da alcuni rappresentanti della comunità, ingaggia l’infermiera e una suora come osservatrici che si daranno il cambio notte e giorno al fine di scoprire se dietro il prodigio ci sia un’altra spiegazione. Anna viene considerata dalla comunità e dalla famiglia una santa, la prima santa del paese. Lib, in un primo momento è sorpresa e sconvolta dalla buona salute della bambina, dopo qualche tempo si rende conto che dietro l’apparente miracolo c’è un comportamento materno e familiare disfunzionale. La bambina, infatti, viene nutrita in realtà attraverso i baci della madre che, nel gesto affettuoso, la imbocca con il cibo masticato che tutti in casa chiamano “manna di Dio”.

letture

Dopo qualche giorno dalla visione del film, in modo pressoché automatico, ho ripreso un saggio che negli anni di formazione mi ha illuminato la strada e a cui sono ritornata spesso per cercare nuovi significati, nuove illuminazioni. Si tratta di un saggio di Rudolph Bell, La santa anoressia, digiuno e misticismo dal medioevo a oggi. I temi del saggio sono vicini a quelli del film e le analogie fra il percorso di santità di alcune sante ascetiche del passato e le manifestazioni dell’anoressia nervosa di Anna, sorprendenti.
Oltre al saggio di Bell ha ritrovato posto sulla scrivania un saggio più recente, anche questo consultato e riletto molte volte ma che mi riserva continue rivelazioni: parlo di Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, l’arte del Kintsugi, curato da Elena Riva, che fornisce interessanti chiavi di lettura dei disturbi restrittivi. Nella mia mente, come spesso accade, si sono riaperti dei cerchi che avevo provvisoriamente chiuso, spiragli che mi hanno portato a rileggere questi due testi e ad annotare nuove impressioni, spiragli direi, nate dalla visione del film.

spiragli

Benvenuta Bojani (Cividale del Friuli, 1255) era la più piccola di sette sorelle, vezzeggiata dai suoi genitori che non scoraggiarono la sua precoce propensione alla vita ascetica. La incoraggiò soprattutto il padre spingendola a entrare fra le terziarie domenicane, note per il rigore religioso e la consuetudine alle mortificazioni corporali. Benvenuta trascorse cinque anni, dai sette ai dodici, immersa per molte ore ogni giorno nelle preghiere che recitava nel giardino di casa: 1700 avemarie e 700 paternostri ogni giorno. Dopo anni di mortificazioni corporali, a ventuno anni si ammalò gravemente: il suo fisico era così debole da non riuscire a stare in piedi senza l’aiuto degli altri. Praticava il digiuno e, se veniva forzata a mangiare, rimetteva ogni cosa entro poco tempo. “L’unico nutrimento le veniva da un angelo che ogni giorno a mezzogiorno le portava un cibo celestiale in un piccolo vaso scintillante e la cibava con le sue dita” (cit. La santa anoressia). Morto il padre, il suo angelo del nutrimento, Benvenuta guarì completamente.
La storia della piccola Anna ricorda molto quella di Benvenuta Bojani. Anche ne Il prodigio c’è un nutrimento divino, la manna di Dio, grazie al quale la bambina sopravvive. In questo caso il cibo, proprio come avviene per il latte materno, attraverso il corpo della nutrice passa alla bambina in una forma predigerita e non visibile agli altri. E’ il miracolo ancestrale: il corpo della madre è un tabernacolo, unica fonte di vita e salute della figlia nel gesto intimissimo e segreto dell’atto di nutrire per tenere in vita, simile a quello intrauterino.
In entrambi i casi, per Benvenuta e per Anna, interviene una dinamica che emerge molto spesso nei casi di anoressia, ovvero il tentativo della figlia di “sanare” una ferita di un genitore o di entrambi, di ovviare cioè a una dolorosa delusione, una ferita, un trauma, un rimpianto. La figlia perfetta mette a posto le cose, compensa i disequilibri, ovvia alle umane imperfezioni e agli umani inciampi attraverso l’ascesi, la santità, il controllo e la mortificazione del corpo. Chi, meglio di un figlio (una figlia), un essere puro, innocente e vicinissimo a Dio, può intercedere per i peccati dei genitori?
Il confronto fra le due ascetiche innesca ulteriori riflessioni sulle relazioni padre-figlia e madre-figlia. Sappiamo che nelle famiglie edipiche tradizionali, mentre al figlio maschio spettava il compito di garantire il benessere economico e il prestigio sociale, la femmina era relegata in aree di minore rilievo. Tuttavia, qualora la figura maschile fosse risultata inadempiente, alla femmina, al corpo della femmina, venivano affidate aspirazioni e ruoli che incarnavano aspettative insostenibili. In questo processo di affidamento il cibo e il corpo diventavano la stessa cosa (il corpo, in particolare, si faceva ponte fra l’esterno e l’interno, fra avvenimenti e sentimenti) e si riempivano di significati profondamente simbolici: una dinamica che oggi sappiamo possibile in ogni periodo storico, con caratteristiche peculiari di ogni epoca. Elena Riva sottolinea tale fenomeno in una nota del saggio precedentemente citato: nelle biografie di Emili Bronte, Emily Dickinson, Simone Weil e Sylvia Plath il fratello risulta investito di aspettative di successo sociale e professionale, mentre la figlia femmina è relegata a ruoli reputati minori, come l’accudimento, la sorveglianza sui figli, l’organizzazione dei banchetti; il suo corpo protetto, fasciato da busti e corpetti.
“Emily Dickinson, costretta dal padre a ritirarsi dagli studi ‘per motivi di salute’, dalla stanza in cui si rifugia a scrivere fino alla morte, scrive: ‘a me chiedevi torte, a lui pagine scritte’ ” (cit. Ferite e ricami nella clinica dei disturbi alimentari, nota 10, pag. 247).
Nel caso di Benvenuta è il rapporto con il padre il fulcro della “santa anoressia”: la ragazza è la più piccola di sette sorelle; il figlio maschio non c’è, ma Benvenuta riempie il vuoto, si fa asceta, produce miracoli, mette in atto prodigi di cui il padre (la madre muore presto) può andare fiero. Nel caso di Anna il fratello commette un grave peccato, l’incesto, ferendo la famiglia nel tessuto più intimo e creando una voragine in cui la bambina prende posto, si sacrifica e viene sacrificata per salvare la famiglia dal baratro del peccato inconfessabile perpetrato dal figlio maschio. In questa storia vi è un fattore addizionale che forse la rende più incisiva e morbosa: il ruolo della madre e del suo bacio-nutrimento. Il corpo di Anna, a differenza di quello di Benvenuta, non è emaciato, non mostra segni di deperimento fino al momento in cui l’infermiera decide di isolarla dalla famiglia, non permettendone più il contatto fisico. La madre-uccello viene allontanata suo malgrado dal nido, la manna di Dio non passa più dal corpo materno a quello della bambina e nessuno, né la madre né gli altri componenti del nucleo familiari, sono pronti a confessare il segreto: condannano Anna alla morte per inedia. La stessa bambina sostiene la sua condanna, ormai cristallizzata nel ruolo che la famiglia le ha attribuito dopo l’incesto.

immagini e immaginazioni

Il prodigio offre anche l’occasione di riflettere sulle immagini e le impressioni che ne derivano. Il registra ci mostra un paesaggio cupo, con colori scuri che vanno dal marrone al grigio al nero, fra i quali spiccano l’azzurro con cui invece si veste l’infermiera Lib Wright e il beige degli abiti di Anna. Il contrasto evoca quello fra la scienza e l’oscurantismo religioso, la cultura e l’ignoranza che rende ottusi e diffidenti. Un contrasto senza tempo, se ci pensiamo, ma che trova nelle immagini di questo film una chiave di lettura universale.


C’è anche qualcosa di profondamente dissonante fra l’ascesi della bambina e gli elementi materici come la pioggia, il fango, la densità di una minestra, il legno di cui è fatta la mansarda che ospita Anna e l’infermiera. L’agonia di Anna, con il sudore della febbre, il collasso del corpo, l’ottundimento dei sensi fa da contraltare alle preghiere, la volontà di dissolversi, farsi spirito, volatilizzarsi nella nebbia. Fisico e umano è anche il dolore di Lib che, mentre si sforza di comprendere con le sue competenze ciò che accade alla ragazza, fa i conti con il suo lutto, con la condizione di madre orfana di suo figlio e con il limite fisico di tolleranza del dolore forse più insopportabile: Lib riesce a sopravvivere alla propria sofferenza attraverso momenti di totale estraniamento, forse con l’aiuto di un farmaco o una droga che si autosomministra pungendosi un polpastrello per poi perdere temporaneamente i sensi. Il corpo, di nuovo, è il ponte fra avvenimenti e sentimenti.
Infine (ma la parola fine riguardo a questo film e a ciò che evoca sembra davvero inappropriata), c’è il fuoco a simulare la morte della bambina e a sancire la fine di ogni possibile progetto di redenzione e santificazione. E cosa fa il fuoco da sempre? Incenerisce e fertilizza, dissolve e trasforma. Nell’incendio della casa si verifica la trasmutazione, un rituale di iniziazione: del peccato in salvezza, della morte in rinascita, dalla malattia alla salute, dal sacrificio estremo al diritto alla vita e alla felicità.
Anna, tratta in salvo dall’infermiera, compie un secondo (vero) prodigio: ricomincia ad alimentarsi e a vivere. Le ultime scene del film ce la restituiscono infatti in un mondo colorato, bambina tenuta per mano dagli adulti, figlia salvata e accudita, umana fra gli umani.

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#secondapelle #testolibero

Riflessioni su memoria, corpo e cibo

Stamani, costretta a casa dal tempo e dal mio polso ingessato, ho saltato la consueta camminata nei boschi di San Rossore e ho impiegato le ore a leggere. Del resto, camminare, leggere, sempre di avventura si tratta.
Mi sono imbattuta in un bell’articolo di Greta Plaitano su L’Indiscreto; un pezzo davvero interessante sul corpo come strumento di memoria basata sulle esperienze, sui sensi, sui sentimenti e le paure. In particolare, citando la studiosa Aleida Assmann, Plaitano parla di memoria d’archivio e memoria funzionale; e di quest’ultima come fenomeno fisiologico che costruisce un “repertorio di eventi realmente accaduti, che gravitano nel pensiero e dai quali l’uomo può attingere a suo piacimento. È un luogo in cui le cose non accadono per caso, seguendo un flusso, ma succedono secondo la volontà della persona.” L’autrice dell’articolo cita la memoria funzionale per introdurre e commentare un romanzo che spero di leggere presto, Il corpo ricorda di Lacy M. Johnson, pubblicato nel 2022 da NNE; il romanzo narra la storia (autobiografica) di un rapimento e di uno stupro, ricostruita attraverso la rilettura dei verbali della polizia (una sorta di memoria esterna) e il ricordo “fisico, sensibile” dell’amore tossico fra l’autrice e il suo aguzzino.
Il mio interesse per l’argomento dell’articolo e del romanzo nasce principalmente dal mio lavoro che ha a che fare ogni giorno con il corpo e le sue memorie, consistendo nel misurare, pesare, comprendere e aiutare le persone attraverso la scienza della nutrizione. Il corpo è l’interfaccia che fornisce dati, esprime disagi, verbalizza bisogni. Ma è anche materia complessa e stratificata che, agendo e muovendosi nel mondo, porta, o meglio trasporta, attraverso lo spazio e il tempo, il proprio vissuto. Ciò che viviamo è biologia, chimica, esperienza sensoriale e sentimentale. È, come scrive la Plaitano, l’insieme di “cicatrici, dolori e sensazioni investono non soltanto la sua superficie, ma anche l’interno celato all’occhio nudo come la carne e il DNA,  le sue strategie di sopravvivenza, movimenti psico-fisici stabilizzatisi nel tempo e messi in atto da generazioni”.
Su questa riflessione da stamattina, vado innestando riflessioni e assemblando cose imparate via via negli anni di studio e lavoro. Ma soprattutto cerco, come ogni volta che leggo cose interessanti, di trarne risposte, oppure domande che mi portano altrove costringendomi a ulteriori letture e riflessioni.
E quindi, il titolo e le letture di stamani mi hanno riportato indietro di qualche mese, a un bel saggio di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, Il corpo non dimentica (Raffaello Cortina Editore). Anche qui è il corpo con le sue esperienze a rappresentare il pilastro di una memoria funzionale: gli autori chiariscono la profonda connessione esistente fra le esperienze sensori-motorie e la relazione genitore-figlio. Lo fanno partendo dai miti antichi e dalla loro narrazione della nascita, evento traumatico segnato da conflitti e misfatti, abbandono e soppressione. Dai miti e dal loro pregnante insegnamento sull’ingresso pericoloso nel mondo, Ammaniti e Ferrari descrivono il processo di memoria atavica, ancestrale che ognuno di noi si porta dentro e che, arricchito da esperienze intrauterine e post-natali, intrecciato al programming fetale e alle esperienze epigenetiche, fornisce alla fine strumenti di relazione e socialità indispensabili: “le sensazioni provenienti dal corpo, sia a livello sensoriale che cinestetico, svolgono un ruolo determinante nella costruzione del sé infantile, contribuendo a determinare i confini corporei attorno a cui si sviluppano i processi mentali”. Il substrato fisico, dunque, è una sorta di stampo su cui archiviare strumenti ed esperienze, o se vogliamo “una morbida tavoletta d’argilla, una lastra di pietra da incidere a fatica o una carta manoscritta a inchiostro, il corpo è un catalogo, un registro che conserva milioni di informazioni esplicite e implicite” (cit. Plaitano).
Se aggiungiamo a questa considerazione che ogni nascita rappresenta una metamorfosi, che ognuno di noi ha “un passato ancestrale che fa di ciascuno dei nostri corpi una porzione limitata e infinita della storia della Terra, della storia del pianeta, del suo suolo e della sua materia (Metamorfosi, Emanuele Coccia, Einaudi), va da sé che dobbiamo pensare a noi stessi come a esseri antichi, complessi e cangianti. Allora tutto ciò che viviamo, non solo nelle prime fasi della nostra esistenza, ma anche dopo, da adulti, con le nostre fragilità e morbosità, sta nel corpo, lascia lì il suo graffio, e ci trasforma, ci ferisce, ci caratterizza e ci identifica. Allora, il cibo che diventerà corpo a sua volta, non è che memoria in fieri, materiale chimico che sedimenta, plasma, struttura, archivia il nuovo su contenuti che già trova. Di forma in forma, dall’utero al mondo, non facciamo che ripercorrere strade già battute, contraendo in un unico atto, la nascita, evoluzione e sviluppo, attraverso l’attitudine al nutrirsi, prima e dopo. All’inizio il nostro cibo è sangue di cordone e placenta, poi è il latte caldo e dolce della madre; in seguito, i colori, le consistenze varie, i sapori insoliti a forgiare una memoria gustativa con cui affronteremo il luogo in cui vivremo, buono o cattivo, accogliente o violento che sia. Ed è memoria chimica, di cellule, nervi e muscoli, pronta ad andare per il mondo e narrare di sé stessa e degli altri. È la memoria della diffidenza e del trauma, quella dei cuccioli del cacciatore-raccoglitore, che curiosi e sprovveduti sperimentarono per primi i pericoli di bacche e radici tossiche. È la memoria del corpo suscettibile, che reagisce all’aspro, al piccante, al viscido; ed è la memoria culturale, che prova disgusto all’idea di un grillo nel piatto. È la capacità di immagazzinare sensazioni e farne reazioni funzionali alla sopravvivenza, richiamando alla mente ora il ricordo ancestrale di un carnivoro predatore, ora l’abbraccio caldo di nostra madre.

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#secondapelle #testolibero morte, paure Racconti Scrittura

Storie di cibo e sentimento

Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose

Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.

Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.


Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.


Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.


Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.

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#secondapelle #testolibero

Trovare il nome alle cose

Stamani, prima di ogni cosa, sono andata a camminare in campagna. Il canneto si è agghindato dei fiori lilla della cicoria selvatica. Le lumache, sentendo la pioggia vicina, sono uscite dal verde, hanno attraversato il sentiero lasciandosi dietro le tracce umide di bava. Il campo che l’anno scorso era di girasoli, adesso è pieno di spighe dorate che, in alcuni punti, sono sdraiate per il sonno notturno di qualche animale. I rovi hanno già i loro piccoli fiori rosa pallido e la borragine resiste in certi angoli fitti, vellutata e blu. E poi, sul ciglio del sentiero, certe nuove fioriture viola che richiamano api e farfalle. Tornata a casa sono andata a cercarne il nome. Veccia villosa, si chiama la pianta, un legume coltivato come foraggio, ma che spesso si trova selvatico lungo i camminamenti.
Ho pensato, camminando, a certi cambiamenti che segnano il tempo. Quando si racconta, ricordi prima di quella certa cosa, oppure, fu dopo l’anno del… Ho pensato alle piccole ferite, un punto di sutura che traspare ancora da un tratto nascosto di pelle; al privilegio di accogliere le storie degli altri, di sentire nel petto certe emozioni che risuonano, si riconoscono, imparano da quelle altrui, vibrano insieme. Sentimenti specchio.
Ho pensato alla fortuna e al coraggio di chiamare ogni cosa col proprio nome.
La scrittura mi ha insegnato la precisione, la biologia ha risposto quasi sempre alle mie curiosità. Ciò che di insoluto è rimasto non può cambiare l’accaduto, non lo può peggiorare, non lo può migliorare. Può solo dare pace ai giorni a venire, a patto che gli si trovi un nome. Il più preciso possibile.

Potrebbe essere un'immagine raffigurante fiore e natura
Veccia villosa – immagine dell’autrice
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#secondapelle Scrittura

Un bosco, un lago, un hotel – Recensione- Hotel Lagoverde

AA. VV., Hotel Lagoverde
LiberAria Editrice, 2021

Mi capita spesso di immaginare un luogo in una dimensione parallela alla realtà in cui fare e dire cose che qui, nel mio oggi, non trovano né spazio né tempo. Un luogo-non luogo, in un tempo-non tempo in cui sperimentare un’altra vita, un altro lavoro, un’altra me stessa. Mi capita di figurarmi questo posto come un bosco in cui mi addentro e mi perdo, imboccando percorsi inesistenti sulle mappe, come un Pollicino scientemente sprovvisto di briciole e sassi con cui segnare la strada del ritorno.
Così, presa dalla curiosità mi sono addentrata anche questa volta e, cammina cammina, ecco un bosco, un lago e un hotel.

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#risvegli #testolibero

Il senso dell’inverno

Certi sguardi sottili sul mondo

Le stagioni hanno il loro modo di vestire il mondo e mostrarcelo. Oppure di svestirlo, spogliarlo del superfluo e renderlo più chiaro, più comprensibile. Basterebbe un giardino, per rendersene conto. E l’ho avuto, molti anni fa, ma ero impegnata nella fatica di crescere e trovare la mia strada. E quindi mi sono persa storie di attese, bocci, germogli, colori, rivelazioni e fioriture.
Quando il rimpianto di quel tempo e di certe perdite diventa insopportabile, esco a camminare. A cercare il senso delle stagioni. In città, nel parco naturale vicino, nelle campagne limitrofe.

L’inverno in città sa di gelata mattutina sulle aiuole, bambini incappucciati, cani che tremano orinando contro un muro, gatti che cercano il primo sole agli angoli del quartiere. Vado a cercarne un nuovo senso a un passo da casa, pochi minuti di cammino. In Piazza dei Miracoli, nelle giornate terse, il marmo sembra ancora più brillante. I turisti saltellano per scaldarsi, ridono fra di loro di quell’espediente, mentre sgranano gli occhi sui monumenti, due anziani intirizziti si incontrano lungo le mura di Porta Nuova e decidono di prendere un caffè nel bar all’angolo di Piazza Manin.
Mi siedo sui gradoni dal Battistero e osservo, pensando al tipo di contemplazione che questo inverno induce qui. Il senso di questa stagione cittadina, il lessico delle persone, le parole dell’inverno. Freddino stamani, eh, si brezza, maremma son du’ gradi … Mi perdo a osservare il verde brinato del prato che sembra un tappeto di perle, lo stacco deciso sul bianco lucente dei marmi: il miracolo continua, ogni giorno dell’anno, mi dico. Ma d’inverno c’è questo silenzio ovattato fra i discorsi, sotto il cigolio di una bicicletta, sui camminamenti delle mura antiche. C’è il senso di questi giorni corti e diversi l’uno dall’altro come fiocchi di neve.

E poi c’è il parco, poco lontano dalla piazza. Anche qui, come in città, il segreto sta nello sguardo e nell’immaginazione. Nel Parco di San Rossore cammino lungo percorsi sterrati e un poco interni. Perché qui gli occhi hanno bisogno di visioni solitarie. Qui, quel senso dell’inverno di cui cerco il bandolo ha bisogno di solitudine e silenzio. A ogni passo mi concentro sui suoni. Ho bisogno di portarmi a casa questi fruscii, il verso ritmato del picchio, il rumore timido dei daini fra gli alberi. Il bosco si svela ai più pazienti e solo da questi si lascia contemplare. In cambio regala la pace preservata dal gelo dell’alba e dal tempo lento delle giornate rigide.
Qui, solo qui, capisco che non avrei potuto, allora, avere questo stesso sguardo. Che gli occhi diventano esperti in sguardi sottili dopo cinque decadi. Che tutti i sensi si affinano per percepire cose minuscole e preziose. Qui, d’inverno, nei colori del sottobosco, nell’argento delle gelate mattutine, e nella povertà indifesa di certi alberi, c’è qualcosa che mi rapisce e mi sorprende. Qui, il rimpianto esiste appena, quasi lo dimentico. In questo posto, d’inverno, ogni cosa è limpida. E mentre cammino, mi sembra quasi d’esser trasparente.