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Sinfonia per una notte

IMG_2534Si è svegliata di buona lena che albeggia appena. Il sonno è un mezzo. Il riposo, l’obiettivo. E quello, al momento, lo raggiunge anche in sole quattro, cinque ore di sonno.
L’aria è fresca, la luce ha fretta di illuminare il cielo a giorno e lei non vuole perdersi la poesia. È suo, quell’attimo in cui la città si spoglia degli ultimi capricci di luna e, luminosa di marmi e bella di vicoli e lungarni, appare in ogni suo dettaglio.
Ogni mattina, dal lunedì al sabato, la ragazza attende quel momento sugli scalini della chiesa dei Cavalieri, mani occupate da due coccole calde comprate in Borgo Stretto, brioche e caffè, zaino sulle spalle. Occhi attenti: ecco il suo attimo. Bellissimo. Irrinunciabile.

Riflette sul cammino quotidiano, da casa solo qualche minuto. Un netturbino spazza gli angoli di piazza Garibaldi. Il centro che si sveglia, si stiracchia e sbadiglia, in quel buio già contaminato da saracinesche tirate su a metà.
Adesso è qui, seduta sul suo scalino, nella sua piazza, poco prima d’essere fagocitata dai doveri. I pensieri sono ancora disciplinati, rispettano il loro turno, l’appetito mattutino mette di buonumore, i libri sulle spalle non hanno avuto ancora il tempo di farsi pesanti. Il peso, pensa, deve avere una qualche relazione con il tempo. A sera lo zaino è più pesante. Massa per accelerazione di gravità: stessa massa, stessa g, eppure …

Cosa accade dopo?

Biblioteca. Non una a caso, no. Biblioteca della Scuola Normale. E non perché frequenti la Scuola, no. Non sarebbe possibile, non sarebbe all’altezza, non ne avrebbe i numeri, né i tempi. Amen. Nessun cruccio, nessun rimpianto, va bene così. Almeno, però, datemi un posto silenzioso in cui studiare. Datemi la profondità di un silenzio in cui le parole hanno il suono pulito. Palazzo dell’Orologio, pieno di fantasmi cari a Dante. Difficile trovare un silenzio più profondo di questo. Datemi uno spazio in cui i composti organici, i miei fantasmi, prendano forma davanti a me, ché sul quaderno sono piatti e non mi torna più niente. Pentosi: cinque atomi di carbonio. Esosi: sei C. Esagerati! Pensa, e sorride di quella licenza che si è appena concessa. Poi torna subito sul testo, Ugolino non è dell’umore giusto, e poi l’esame è vicino, la distrazione è cattiva consigliera e pessima compagna di studio.

La scelta di continuare gli studi è il suo tatuaggio. Sulle gambe forti e veloci, ali da uccello migratore. Pelle giovane, occhi svegli all’alba. La tenacia, il migliore tatuatore sulla piazza. Poco sonno ed energie da vendere. Se la distanza oggi è tanta, si prende la bici. Se la bici è sgonfia, si va a piedi. Se piove, si prende l’ombrello, no, meglio una giacca con cappuccio per tenere le mani libere. Prendere il caffè, salutare, soffiarsi il naso, infilare le mani in tasca se fa freddo.

Dopo le mattine in biblioteca, interrotte dalle lezioni, quando può, c’è un panino veloce in un bar di via Santa Maria. Ciao, ma dov’eri, ti cercavo per gli appunti. Nel pomeriggio vieni in laboratorio. No, devo lavorare, farò le fotocopie dal tuo quaderno. L’estenuante dialettica delle tredici e trenta che argomenta senza svelare, con quel garbo persuasivo di chi non ama stare da solo ma deve sfruttare al massimo ogni minuto.
L’agenzia immobiliare fino alle diciannove, dal lunedì al giovedì, un comodo part-time. Il resto dei pomeriggi è per le ripetizioni. I ragazzini si susseguono e si accavallano dalle quindici in poi. In una stanza chimica, nell’altra matematica o scienze. Capita, ogni tanto, anche qualche ripetizione di francese, lingua adorata, mai utilizzata se non per aiutare qualche studente delle medie. La chimica richiede la sua stanza, scaffali per i libri di stechiometria, tavola periodica in triplice copia, lavagna bianca con pennarelli colorati che dopo un po’ gonfiano le tonsille. La chimica ha esigenze speciali. Quella stanza non si presta ad altro, così come l’attenzione è dedicata, non si condivide con altre discipline.
C sei H dodici O sei, che la glicolisi abbia inizio. Il ragazzo del liceo non memorizza formule e reazioni, lei s’impegna perché se ne innamori. Noi siamo questo, gli dice, chimica organica in un corpo che vive, kemà, al-kimiaabios, senti che bel suono queste parole. La biochimica è una sinfonia, è il prodotto di un’orchestra perfetta.
Forse riesce a farlo innamorare, o forse la sua esaltazione lo innervosisce. Vedrà come andrà il compito a scuola, vedrà.

Le sere e i fine settimana sono per lo studio intenso. Sotto esame niente amici, niente pizza, niente musica.
Ma l’invito arriva e lei ne è tentata. Un nuovo amico, studia legge, ci prova, dice lui. Simpatico, auto-ironico, ha perso da poco il padre e si è allontanato da casa per capire cosa fare da grande. Suona il flauto traverso. La invita, insieme ad altri amici, a fare una pizza tutti insieme.

Sabato sera, l’esame fra una settimana, lei conta le ore di studio rimaste. Poche, come sempre. Ma l’invito la tenta. Una serata leggera. Magari lui suonerà il flauto. Accetta.

Da bambina voleva fare la pianista. Piccolissima, gambe penzoloni sullo sgabello sempre troppo alto. Mora, attenta, emotiva davanti ai tasti. Minuscola pianista in erba, grandi occhi, grande cuore, poco coraggio. Il maestro burbero, nessuna tenerezza, nessuna pietà. Metodo punitivo: se ti mortifichi ricordi, se soffri un po’ impari. Imparava lentamente, mani paralizzate da critiche che erano invettive. Non poteva capire. Non poteva imparare. Smise per altri motivi, non per lui. Infanzia complicata. Si sappia, non per lui.

L’invito arriva e lei accetta. Per nostalgia.

La farina bianca c’è, qualcuno porta i pomodori pelati, lei ha la mozzarella, sembra di plastica ma in forno fila. La ragazza del quaderno di laboratorio ha portato la birra. Tutti hanno dimenticato il lievito. Senza lievito, niente pizza, ridono ma sono un po’ delusi. E ora? Non importa, dice lei, con la bici è un attimo, a casa mia madre lo avrà sicuramente.
In un baleno, torna e si mettono a impastare. La musica dallo stereo arriva fino alla cucina. Rock duro, non è il suo preferito, ma dà un bel ritmo al lavoro. Ognuno si è scelto un’occupazione. Il flautista, lava il basilico con le sue dita magre e poi lo asciuga prima di tuffarlo fra i pelati. Lei pensa alla percezione tattile del basilico e a una melodia impercettibile all’orecchio umano. Sì, anche le foglie del basilico sotto quelle dita suonano.
Il forno già caldo attende.

Le chiacchiere forgiano un’armonia di stagno fuso che addolcisce gli spigoli del pezzo rock e lo rende meno duro. Gli amici vi parlano sopra come ballerini leggeri su una pista da ballo. Le risate del gruppo si arrampicano lungo i crescendo della musica, dondolano appena, in bilico sull’acuto del cantante, l’equilibrio di un secondo, per poi scivolare con senso di liberazione verso i bassi. Finisce l’ennesimo pezzo. La pizza è pronta. Il profumo diffonde rapidamente dal naso all’amigdala, fino a invadere il cuore.

È lei quel piccolo cosetto saltellante seduto sulle ginocchia della zia? È proprio lei. Codine nere lucide ai lati della testa tonda. Pane caldo, olio, sale, origano. È domenica sera. La zia e la nonna a casa nostra. Un’altra casa, un’altra terra, altre appartenenze. Papà e mamma allegri.
Quanto tempo è passato? Non sa. Giusto il tempo di un trasferimento, la migrazione tanto attesa. Il tempo di apprezzare solitudini e cucirsi il cuore dentro il petto per non farlo scappare via quando comincia a scalpitare.
Poi, i piedi tornano per terra. La nuova vita ha le sue asperità. Ognuno fa i conti con ubbie e paure. Tutto è faticoso come un imprevisto. Dopo il liceo, lettere. No, meglio biologia, offre di più. E la scrittura? Dopo, vedrai, ci sarà tempo anche per quella. Lei va, inizia a diventare grande. Lavora e studia. Senza ripensamenti.

Pizza e birra. Poi si sparecchia. Il bivacco intorno alla stufa elettrica. Le chiacchiere e le risate si impanano al fumo di qualche sigaretta. Lo studio è argomento da evitare in tutti i modi. Stasera, relax. A costo di costringere i pensieri a faticosi contorsionismi.

La ragazza è sul tappeto, gambe distese e incrociate, schiena appoggiata al fianco del divano. Il flauto è la speranza del suo udito stanco. Qualcuno è già andato via. Sono rimasti in pochi, l’ora è tarda. Devo studiare, pensa, ma dimentica appena lo strumento lascia la sua custodia, i pezzi si accorpano nello spazio davanti a lei.
Il suono si fa attendere, lascia che qualche soffio e qualche aggiustamento lo precedano, come fedeli servitori il re. Poi, la sinfonia.

E la meraviglia.

Rientra in punta di piedi. È molto tardi. La casa e il resto della famiglia, immersi in un sonno vischioso. Intravede lo zaino in un angolo della camera e pensa che la luce del lampione dalle due stecche superiori dell’avvolgibile la stia richiamando all’ordine. Domani, pensa. La giornata sarà più proficua.
Chiude gli occhi, Mozart, sinfonia numero quaranta in sol minore, ritorna in mente e resta lì con lei a lungo prima del sonno.
Per il riposo, lo sa, bastano poche ore.

 

© giusi d’urso

 

 

 

 

 

 

 

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