La finestra è socchiusa e la sera di marzo – imprevisto chiaro di luna – riempie la stanza dalla fessura concessa alla situazione insolita. Lui non ha caldo. Lei sì. Non è stato sempre così, ma l’esatto contrario. Lui si scopre durante la notte, lei tira a sé le coperte, ne fa un bozzolo in cui maturare un riposo senza interruzioni né metamorfosi. Nelle sere di gioco e discorsi leggeri, interrotti dal fragore di risate che incoraggiano la vicinanza, lui accoglie i piedi gelati di lei. Allora c’è tempo e atmosfera per distribuire equamente il calore, bilanciare temperature e stati d’animo. Parlare e poi fare l’amore.
Ma adesso, no. È tempo di assecondarla, questa donna in attesa. Questo cilindro magico che promette dolore e tenerezze. Il lenzuolo segue la rotondità del ventre, scorrendo sul movimento regolare del respiro e lui resta accanto, sveglio. Non si può dormire di fronte a un programma così misterioso. E quindi, pazienza, non dormirà, ché diventare padre non è roba da poco.
Ricorda appena, l’uomo, l’arrivo della sorella. Quell’atmosfera d’irrequietezza che respirò per giorni attraverso discorsi imbastiti di parole sconosciute, cesareo, urgenza, pressione, degenza. Mamma non c’è, sta via per qualche giorno, poi torna con la sorellina, sei contento. Troppo piccolo per capire, troppo grande per l’indifferenza. No, non era contento. Mamma con un altro bambino. Una femmina, poi. Perché tutti davano per scontato che sarebbe stato contento? Sì, diventare il fratello maggiore gli insufflava in petto un’inspiegabile fierezza: maggiore, l’inizio di una qualche carriera, un primo scalino, una tacca in più sul muro, sei grande, adesso. Ma era proprio necessario portarsela a casa, quella, tenerla accanto a mamma notte e giorno?
Poi era nata e lui l’aveva vista entrando nella penombra in una stanza fresca e piena di stupore, il dito nella culla a cercare un contatto discreto. Non una coccola, solo un contatto per tastare quella pelle nuova, rossa e grinzosa. Il tatto dice tante cose. Il tatto è primitivo, libero da preconcetti, schietto e scrupoloso.
Come fanno a dire che sei bella?
La piccola gli strinse forte il dito e lui restò così per un tempo che gli sembrò infinito, fino a quando non si decise a chiedere come fare a liberarsi. Contrariato, vide che gli altri ridevano di lui.
Sdraiato su un fianco accanto alla sua donna pensa che la pancia tonda è un mappamondo di cui disconosce la geografia, nonostante i libri sfogliati insieme negli ultimi mesi. La superficie adesso è segnata da arterie blu, confini di territori sconosciuti. L’ombelico è sporgente, osservatorio in cima a un’enorme collina. La topografia di quel ventre rotondo lo distoglie da tutto il resto. Da settimane, ormai, rientrando a sera, attende quella liturgia: la trova stanca, piedi gonfi, schiena a pezzi, quel nuovo colorito che, scavalcando il naso, passa da una guancia all’altra come il ponte fra le sponde di un fiume. Si sdraia sul divano, la donna, cena sbadigliando e poi cerca il letto quasi a occhi chiusi. Il suo sonno, sotto il cuscino, pronto, profondo solo per qualche ora. E in questo tempo, con una parte di cervello e cuore che non sapeva di avere, l’uomo elabora serie infinite di dati di questa nuova mappa emozionale.
Il padre non sa. La madre sa tutto. Lo sa prima di esserlo. Quel silenzio lo dispone al tentativo di comunicare, come l’invito a un dialogo nuovo, sarò tuo figlio, chiamami con la tua voce. L’uomo se ne dichiara fuori per rispetto e inettitudine. Il suo dialogo lo fa senza alcun suono, ché sarebbe già troppo anche un solo filo di cotone fra loro due, pensa, fra il progetto e il suo tenace artigiano.
Lui si fa trasparente. Parla in silenzio, in segreto.
Ho qui, fra gola e costole, una specie di rammarico per ciò che mi sfugge e che forse ti aspetti da me. Non dirò del mondo, né di previsioni sul futuro, di cotte alle elementari, di sgridate dopo le marachelle. Non so niente e immaginare è un diritto che lascio a chi ti nutre. Il padre non sa niente. Impara da questo rammarico che un po’ soffoca e un po’ entusiasma.
Una nuvola toglie alterigia alla luna. La sera ora è una notte buia.
Dopo un incubo suo padre era accorso nel buio, non è niente, è solo un brutto sogno. E lui, sudato e impaurito, non riusciva a parlare. Chissà quali fantasmi gli avevano addentato gambe e braccia, chissà quale rugghio gli era riecheggiato nell’orecchio e nel cuore, insieme alla vergogna per quella paura, per il pianto.
Ma papà è qui, papà è forte, eccomi, non c’è niente da temere.
Un’altra notte, sua madre aveva preceduto il conato, bacinella pronta e mano sulla fronte. Ancora prima di un sussurro. Il malessere era nel respiro e l’allerta un richiamo sottile infilatosi fra il cuscino e il sonno di lei. Prima dell’accaduto, lei c’era. La madre sa tutto. Lo sa prima.
Io invece non so niente.
In silenzio, in segreto, il dialogo fluisce senza coscienza di una meta, solo con la speranza del perdono preventivo. Ecco, ti volevo dire che non ho coraggio, non sono forte e il buio mi mette a disagio. Ho il sonno pesante, anche se da settimane non riesco più a dormire. Perché, vedi, questo è uno strano passaggio. È diventare uomo grazie a un bambino. Che ci si senta pronti o no. Un battesimo, no, che dico, un’epifania. Ho perso mio padre e ora avrò te. Ci penso appena fa buio, forse l’oscurità rivela nuovi panorami di esperienze e nostalgie. E quindi, mentre penso a lui che non c’è più, arrivi tu, con una forza su cui non ho controllo. Cresci dentro tua madre e sai di lei ciò che io ignoro. Annusi i suoi umori da dentro, ti nutri dal suo sangue, sintonizzi il sonno sul suo battito, ti dondoli sul suo respiro. Tu basti a lei e lei a te.
Sgomento, l’uomo chiude gli occhi.
Il cavaliere forte aveva affrontato con coraggio anche la fine. Il figlio, senza spada né scudo, lo aveva accompagnato. Eccomi, papà, sono con te. Il respiro si era fatto lento e lievissimo fino a scomparire, ma fra ogni battito c’era stato il tempo di un abbraccio, di quella tenerezza che fra uomini non usa, invece adesso è necessaria, papà, e io ti voglio dare tutti i baci che non ti ho mai dato. Sui capelli bianchi, disciplinati dal tempo, sulle gote lisce di vecchiaia e sulle mani scarnificate dai digiuni e dai dolori. Mio cavaliere, forte e coraggioso, ti accompagno fino a dove posso.
Il vero dolore, quando perdi un padre, è sapere che fra te e la vita non c’è più nessuno pronto a prendere la spada e correre a salvarti.
C’è ancora un’attesa da tollerare, dietro questa grande finestra di vetro. Ti ho intravisto fra i sussulti di una commozione nuova. Troppa luce per te, gliel’ho detto. Hanno sorriso di me e ti hanno portato altrove. Mi sono ritrovato subito fuori dalla sala parto e lei non mi ha salutato, era assopita. Era già tua.
La tenda è spessa e non lascia intravedere se non le sagome delle culle. Poi qualcuno ha pietà di me e degli altri uomini che si allenano da poche ore a congratulazioni e pacche sulla spalla. La tenda si apre, l’infermiera sorride. Ti prende in braccio per secondo e io penso che la bambina appena venuta al mondo ti ha già scavalcato. Arrivano sempre prima, sappilo.
Hai pochi capelli, il naso piccolo è di tua madre, così come la forma del viso. Vorrei ripeterti quel discorsetto che ti ho fatto l’altra sera. Ma tutta questa luce, così potente e fulgida, mi ammutolisce. Insieme allo sguardo attento su di te che mi sottrae energie, come il timore che le braccia di quella donna in camice che ti tira su come fossi in vendita non siano abbastanza forti e protettive.
Ed eccomi, dunque, in silenzio e senza più segreti, fra te e la vita.
© giusi d’urso