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Riflessioni su memoria, corpo e cibo

Stamani, costretta a casa dal tempo e dal mio polso ingessato, ho saltato la consueta camminata nei boschi di San Rossore e ho impiegato le ore a leggere. Del resto, camminare, leggere, sempre di avventura si tratta.
Mi sono imbattuta in un bell’articolo di Greta Plaitano su L’Indiscreto; un pezzo davvero interessante sul corpo come strumento di memoria basata sulle esperienze, sui sensi, sui sentimenti e le paure. In particolare, citando la studiosa Aleida Assmann, Plaitano parla di memoria d’archivio e memoria funzionale; e di quest’ultima come fenomeno fisiologico che costruisce un “repertorio di eventi realmente accaduti, che gravitano nel pensiero e dai quali l’uomo può attingere a suo piacimento. È un luogo in cui le cose non accadono per caso, seguendo un flusso, ma succedono secondo la volontà della persona.” L’autrice dell’articolo cita la memoria funzionale per introdurre e commentare un romanzo che spero di leggere presto, Il corpo ricorda di Lacy M. Johnson, pubblicato nel 2022 da NNE; il romanzo narra la storia (autobiografica) di un rapimento e di uno stupro, ricostruita attraverso la rilettura dei verbali della polizia (una sorta di memoria esterna) e il ricordo “fisico, sensibile” dell’amore tossico fra l’autrice e il suo aguzzino.
Il mio interesse per l’argomento dell’articolo e del romanzo nasce principalmente dal mio lavoro che ha a che fare ogni giorno con il corpo e le sue memorie, consistendo nel misurare, pesare, comprendere e aiutare le persone attraverso la scienza della nutrizione. Il corpo è l’interfaccia che fornisce dati, esprime disagi, verbalizza bisogni. Ma è anche materia complessa e stratificata che, agendo e muovendosi nel mondo, porta, o meglio trasporta, attraverso lo spazio e il tempo, il proprio vissuto. Ciò che viviamo è biologia, chimica, esperienza sensoriale e sentimentale. È, come scrive la Plaitano, l’insieme di “cicatrici, dolori e sensazioni investono non soltanto la sua superficie, ma anche l’interno celato all’occhio nudo come la carne e il DNA,  le sue strategie di sopravvivenza, movimenti psico-fisici stabilizzatisi nel tempo e messi in atto da generazioni”.
Su questa riflessione da stamattina, vado innestando riflessioni e assemblando cose imparate via via negli anni di studio e lavoro. Ma soprattutto cerco, come ogni volta che leggo cose interessanti, di trarne risposte, oppure domande che mi portano altrove costringendomi a ulteriori letture e riflessioni.
E quindi, il titolo e le letture di stamani mi hanno riportato indietro di qualche mese, a un bel saggio di Massimo Ammaniti e Pier Francesco Ferrari, Il corpo non dimentica (Raffaello Cortina Editore). Anche qui è il corpo con le sue esperienze a rappresentare il pilastro di una memoria funzionale: gli autori chiariscono la profonda connessione esistente fra le esperienze sensori-motorie e la relazione genitore-figlio. Lo fanno partendo dai miti antichi e dalla loro narrazione della nascita, evento traumatico segnato da conflitti e misfatti, abbandono e soppressione. Dai miti e dal loro pregnante insegnamento sull’ingresso pericoloso nel mondo, Ammaniti e Ferrari descrivono il processo di memoria atavica, ancestrale che ognuno di noi si porta dentro e che, arricchito da esperienze intrauterine e post-natali, intrecciato al programming fetale e alle esperienze epigenetiche, fornisce alla fine strumenti di relazione e socialità indispensabili: “le sensazioni provenienti dal corpo, sia a livello sensoriale che cinestetico, svolgono un ruolo determinante nella costruzione del sé infantile, contribuendo a determinare i confini corporei attorno a cui si sviluppano i processi mentali”. Il substrato fisico, dunque, è una sorta di stampo su cui archiviare strumenti ed esperienze, o se vogliamo “una morbida tavoletta d’argilla, una lastra di pietra da incidere a fatica o una carta manoscritta a inchiostro, il corpo è un catalogo, un registro che conserva milioni di informazioni esplicite e implicite” (cit. Plaitano).
Se aggiungiamo a questa considerazione che ogni nascita rappresenta una metamorfosi, che ognuno di noi ha “un passato ancestrale che fa di ciascuno dei nostri corpi una porzione limitata e infinita della storia della Terra, della storia del pianeta, del suo suolo e della sua materia (Metamorfosi, Emanuele Coccia, Einaudi), va da sé che dobbiamo pensare a noi stessi come a esseri antichi, complessi e cangianti. Allora tutto ciò che viviamo, non solo nelle prime fasi della nostra esistenza, ma anche dopo, da adulti, con le nostre fragilità e morbosità, sta nel corpo, lascia lì il suo graffio, e ci trasforma, ci ferisce, ci caratterizza e ci identifica. Allora, il cibo che diventerà corpo a sua volta, non è che memoria in fieri, materiale chimico che sedimenta, plasma, struttura, archivia il nuovo su contenuti che già trova. Di forma in forma, dall’utero al mondo, non facciamo che ripercorrere strade già battute, contraendo in un unico atto, la nascita, evoluzione e sviluppo, attraverso l’attitudine al nutrirsi, prima e dopo. All’inizio il nostro cibo è sangue di cordone e placenta, poi è il latte caldo e dolce della madre; in seguito, i colori, le consistenze varie, i sapori insoliti a forgiare una memoria gustativa con cui affronteremo il luogo in cui vivremo, buono o cattivo, accogliente o violento che sia. Ed è memoria chimica, di cellule, nervi e muscoli, pronta ad andare per il mondo e narrare di sé stessa e degli altri. È la memoria della diffidenza e del trauma, quella dei cuccioli del cacciatore-raccoglitore, che curiosi e sprovveduti sperimentarono per primi i pericoli di bacche e radici tossiche. È la memoria del corpo suscettibile, che reagisce all’aspro, al piccante, al viscido; ed è la memoria culturale, che prova disgusto all’idea di un grillo nel piatto. È la capacità di immagazzinare sensazioni e farne reazioni funzionali alla sopravvivenza, richiamando alla mente ora il ricordo ancestrale di un carnivoro predatore, ora l’abbraccio caldo di nostra madre.

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#secondapelle #testolibero morte, paure Racconti Scrittura

Storie di cibo e sentimento

Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose

Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.

Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.


Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.


Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.


Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.

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#risvegli #secondapelle

Il compiaciuto intero

Sono fortunata, io, con le mie due metà, l’una cresciuta a pane e parole e l’altra tirata su a chimica organica e biologia. Mi colloco in quella parte del mondo immaginario di cui qualcuno non sa dire nulla se non che o fai una cosa oppure ne fai un’altra. Lo stesso mantra che per anni mi son sentita predicare mentre studiavo e lavoravo insieme. Avere due metà così prolifiche invece è un privilegio. Il risultato, un compiaciuto intero.
Lo tratto bene, io, il mio privilegio. La biologia è materiale di scrittura creativa, la propensione alle parole è strumento per raccontare la biologia. Le mie metà vanno d’accordo fra di loro e, stranamente, anche con quella parte di me che sa essere esigente e tenace fino all’ossessione, creativa e rigorosa come le due metà le ordinano da sempre. Che poi scrivere non è che una delle mappe a disposizione di chi nasce e comincia a viaggiare fuori da sua madre. È come il remo che spinge avanti la barca, la luna che illumina il giardino. La musica che colma e risolve il silenzio cupo.

Ho la fortuna di insegnare e di aiutare le persone a fare del loro cibo strumento di salute. E non è forse il buon cibo come le parole? Nutre, sazia, gratifica. Non c’è dicotomia ma fratellanza, lo penso ogni volta che qualcuno me ne chiede conto. Ma come fai, come concili? Non avverto alcun bisogno di conciliazione. Non chiedo salvezza da questo dimezzamento. Qualora si arrivasse allo scontro (a volte capita) l’accolgo, mi faccio campo di battaglia, lascio procedere le fazioni contrapposte; e prendo il meglio dalle due metà, ne faccio un tappeto, una cesta, un maglione. Qualcosa che mi torni utile sul momento o in futuro. Accade sempre. Accade per natura che arrivi il momento di ringraziare il fato.

Le mie metà non sono causa dell’insonnia che a cicli viene a visitare le mie notti. Credo che accada il contrario: è l’insonnia a costruire fra loro ponti e cerniere, che le rende forti e le struttura nell’intesa di una fratellanza. È l’insonnia, sono tutti i pensieri che contiene a fortificare delle due metà diversità e congruenze. Due palazzi che si sorreggono fra loro.

È sempre stato così. È la carne che viene da mia madre e da mio padre. Non ho mai trascurato la scrittura e la lettura quando sembravo dedita completamente alla biologia. Non ho tralasciato la mia scienza-fondamento quando ho dedicato tempo alle parole. È solo questione di occasioni e di possibilità. E di quell’arbitrio libero e incondizionato che mi fa scegliere di concedere spazio e tempo alle due metà che mi compongono, che mi fa dire sono entrambe me, fino al midollo. Riconoscerlo è terapeutico. Accettarlo inebriante.

© giusi d’urso
immagine di Hakeen James Hausley