Ovvero lo sguardo tardivo sulle cose
Ho una passione per i ricettari. Quelli di casa sono vissuti, contengono commenti a matita e a penna, con calligrafie diverse, tracce del mio diventare grande; riflessioni, aggiunte e aggiustamenti di dosi e ingredienti, frasi evidenziate in giallo, frammenti di giornale incollati e ripiegati su ste stessi. Alcuni in particolare sono diventati spessi a furia di riempirli e si sono squinternati in certi punti. Contengono segnalibri, ricette fotocopiate da altri ricettari, immagini di pietanze ritagliate, fogli staccati dai miei notes con scrittura fitta e appassionata; riflessioni di ogni tipo, soprattutto sulle sensazioni dopo un nuovo piatto, inventato, oppure riprodotto. Non sono semplici ricettari, sono testi in evoluzione, in continua metamorfosi.
Ne ho uno della De Agostini che ho con me da molti anni: mi è stato regalato da mia zia Nunzia negli anni novanta, una delle ultime estati che ho trascorso a casa sua, al paese del sud in cui sono cresciuta. Lo tengo su una mensola dello studiolo di casa, insieme a portafotografie e lavoretti delle figlie quando erano piccole. La zia non è più lucida, non mi riconosce più, ha barattato suo malgrado la longevità con la demenza e non c’è niente che io possa fare. Ogni tanto, apro a caso il ricettario, sento la sua risata allegra e mi commuovo.
Ho sempre in giro per casa anche un raccoglitore ad anelli per ricette scritte a mano, regalatomi da mia sorella molto tempo fa, quando lei era ancora ragazza e io una giovane donna appena diventata mamma. Contiene ricette inventate, oppure trascritte e poi modificate, istruzioni per fare gli omogeneizzati in casa, una serie di raccomandazioni per le pratiche di svezzamento naturale. I fogli a righe sono pieni di asterischi, osservazioni, correzioni, una specie di zibaldone culinario. Il ricettario della mia fase costruttiva, felice e assonnata.
Altri due libretti mi porto dietro da anni: due minuscole pubblicazioni delle edizioni Henry Beyle, Invito alla cucina di Mario Praz e I Piaceri della tavola di Vitiliano Brancati. Non sono ricettari, ma una sorta di intima conversazione sui piaceri della tavola e sul privilegio di inventare pietanze. Me li ha regalati una persona gentile e solidale, durante un breve soggiorno a Cartosio, per la presentazione di uno dei miei libri. Fui molto felice, in quei giorni, fra persone ospitali, attente, devote alla natura e ai suoi frutti.
Nonostante la mia passione per i libri di cucina e a dispetto della mia professione, non sono una grande cuoca, non ho la raffinatezza degli chef, né il loro gusto e la loro precisione, ho imparato a cucinare più per necessità che per vera passione. Da ragazzina, ero ancora al liceo, mia madre che allora insegnava rincasava quasi ogni giorno più tardi di me. Allora, io e mio padre, a turno oppure insieme, ci davamo da fare per mettere in tavola un pasto decente e qualcosa che somigliasse all’armonia. Mio padre era bravissimo a cucinare il pesce e certi intingoli per condire la pastasciutta. Ho imparato da lui la fantasia del riciclo in cucina, del far rinvigorire ogni cosa sui fornelli; anche la capacità di realizzare in fretta un pasto e accogliere, apparecchiare e condividere. A dire il vero, ho imparato da lui molte altre cose, ma se si parla di cucina, ecco, ciò che gli devo è proprio l’inventiva che anima lo spazio fra il piano cottura e il tavolo da pranzo.
Mario Praz scrive che “Quella della cucina è la più gaia scienza del mondo, purché si possieda un po’ di attenzione” e che “per esser cuochi si richiede quella stessa qualità di ordine mentale che è indispensabile nell’arte e nella filosofia, e, direi, in tutte le altre faccende umane, eccettuata, beninteso, la politica”. Mio padre cucinava senza sapere di queste cose, come di molte altre, aveva regole tutte sue. Era un uomo con una storia difficile, faceva il geometra e aveva un gran brutto carattere. Ma le sue pietanze, il suo gusto per le spezie, i pesci, i brodetti e l’olio buono lo facevano a suo modo dolce, affettuoso e comunicativo.
Parlare di mio padre, che manca al mio affetto da più di vent’anni, è difficile: l’assenza è più potente dell’amore e le incomprensioni che hanno segnato la nostra convivenza durata trent’anni ancora mi amareggiano, mi feriscono come allora le nostre discussioni. Cerco sempre una lingua lusinghiera per parlarne, un varco che renda tutto più sopportabile. Cucinare, leggere di cucina, mettere a tavola le pietanze che mi ha insegnato sono gesti di una gioia tranquilla, un buonumore che lentamente mi riempie e diffonde in ogni mio tessuto, come una medicina mi dà sollievo. E me lo riporta qui, nel modo pacifico che avrei sempre voluto per entrambi.
Parlo di cucina e di lui, dunque, per l’esigenza di ragionare ancora intorno a certe questioni e perché come sempre le mie passioni non sono mai state pure e nette.
Giorni fa ho terminato la lettura di Casalinghitudine, di Clara Sereni. Non avevo mai letto nulla di lei fino ad ora e questo suo ricettario-romanzo mi è piaciuto così tanto che, come spesso mi accade, ha tirato in ballo altre letture, ha chiuso cerchi, ha pacificato discordie antiche. Ho ricordato, ad esempio, di aver sottolineato in un piccolo saggio una frase che mi aveva colpito, sulla quale mi ero interrogata a lungo senza arrivare, allora, a niente di consolatorio. Nell’introduzione de Il cibo, una via di relazione, Maria Luisa Savorani racconta quanto la cucina sia “un luogo in cui prevale un sentimento di forte intimità e in cui il dolore può essere meglio elaborato, poiché i cibi trasmettono vita, energia, benessere, e possono cambiare anche i nostri pensieri”. È un piccolo saggio edito da Fernandel e le sue verità mi sono più chiare solo adesso che a casa mia siamo tutti adulti e le mie giornate non sono più divorate dai doveri di nutrice. Adesso posso dedicarmi con un pensiero lucido e sano alle conversazioni con le cose insolute, con chi ha lasciato in sospeso mille faccende fra la cucina e il sentimento di abbandono. Così, grazie al fenomeno di “un libro chiama l’altro”, faccio un giro intorno a certe letture passate, le circumnavigo, attendo che il faro le illumini. E finalmente ne osservo completamente il contenuto.
Adesso so che, senza capirlo fino in fondo, cucinare per me è sempre stato un viatico, l’incubazione indispensabile di qualcosa, un progetto, una trasformazione, un cambiamento importante. Il mio lavoro non c’entra. Sono diventata ciò che sono molti anni dopo aver imparato a cucinare. Ma forse il mio lavoro mi aiuta a capire le storie di cibo e sentimenti ascoltando gli altri. Anche la mia, mi accorgo adesso, è una storia di cibo e sentimenti. Di farine che agglutinano e amalgamano diversità, abbracci dopo una litigata furiosa. Di latte, bianco e grasso, che ammorbidisce gusti troppo forti, che ricorda affetti primordiali, irrinunciabili. È una storia di accostamenti arditi come le trasgressioni, come i giorni furiosi di insoddisfazione, oppure di pietanze ricopiate e poi personalizzate con un ingrediente che non ci dice niente. Il coraggio, l’assertività, il pugno battuto sul tavolo, le lacrime stizzite di una adolescente. Il pane appena sfornato farcito con le acciughe sott’olio e un’abbondante spolverata di origano, tutti insieme intorno al tavolo della domenica sera, le canzonette alla tivù, l’oblio di certi rammarichi. Avrei dovuto capirlo che il brodo di pollo, grasso e bollente, era un’offerta di pace; che il ragù di triglie voleva garantire la sincerità di un pentimento o di un perdono.
Cucino per ricordarmi dell’amore sopravvissuto a certe incongruenze e disfunzioni. Per esorcizzare la distanza fra me e il destino di ogni vivente, per consolare ciò che di me mio padre non ha saputo consolare. Ne parlo stasera con un sentimento aperto come mai mi è capitato di provare, per merito di certe letture e degli anni che accumulano una sapienza immeritata, eppure benefica e propizia.
Di mio padre che non c’è più ho mille ricordi. Quelli di lui in cucina, mentre affetta e trita con il suo leggero tremore alle dita, è forse quello più caro. Cucinava per farci contenti, per aiutare mia madre, per insegnarmi la lingua dei sapori, per raccontarmi le sue storie dell’infanzia. Cucinava per dimenticare un dispiacere che non riusciva a raccontare. Ma questo lui non me lo ha mai detto.