Il senso dell’inverno

Certi sguardi sottili sul mondo

Le stagioni hanno il loro modo di vestire il mondo e mostrarcelo. Oppure di svestirlo, spogliarlo del superfluo e renderlo più chiaro, più comprensibile. Basterebbe un giardino, per rendersene conto. E l’ho avuto, molti anni fa, ma ero impegnata nella fatica di crescere e trovare la mia strada. E quindi mi sono persa storie di attese, bocci, germogli, colori, rivelazioni e fioriture.
Quando il rimpianto di quel tempo e di certe perdite diventa insopportabile, esco a camminare. A cercare il senso delle stagioni. In città, nel parco naturale vicino, nelle campagne limitrofe.

L’inverno in città sa di gelata mattutina sulle aiuole, bambini incappucciati, cani che tremano orinando contro un muro, gatti che cercano il primo sole agli angoli del quartiere. Vado a cercarne un nuovo senso a un passo da casa, pochi minuti di cammino. In Piazza dei Miracoli, nelle giornate terse, il marmo sembra ancora più brillante. I turisti saltellano per scaldarsi, ridono fra di loro di quell’espediente, mentre sgranano gli occhi sui monumenti, due anziani intirizziti si incontrano lungo le mura di Porta Nuova e decidono di prendere un caffè nel bar all’angolo di Piazza Manin.
Mi siedo sui gradoni dal Battistero e osservo, pensando al tipo di contemplazione che questo inverno induce qui. Il senso di questa stagione cittadina, il lessico delle persone, le parole dell’inverno. Freddino stamani, eh, si brezza, maremma son du’ gradi … Mi perdo a osservare il verde brinato del prato che sembra un tappeto di perle, lo stacco deciso sul bianco lucente dei marmi: il miracolo continua, ogni giorno dell’anno, mi dico. Ma d’inverno c’è questo silenzio ovattato fra i discorsi, sotto il cigolio di una bicicletta, sui camminamenti delle mura antiche. C’è il senso di questi giorni corti e diversi l’uno dall’altro come fiocchi di neve.

E poi c’è il parco, poco lontano dalla piazza. Anche qui, come in città, il segreto sta nello sguardo e nell’immaginazione. Nel Parco di San Rossore cammino lungo percorsi sterrati e un poco interni. Perché qui gli occhi hanno bisogno di visioni solitarie. Qui, quel senso dell’inverno di cui cerco il bandolo ha bisogno di solitudine e silenzio. A ogni passo mi concentro sui suoni. Ho bisogno di portarmi a casa questi fruscii, il verso ritmato del picchio, il rumore timido dei daini fra gli alberi. Il bosco si svela ai più pazienti e solo da questi si lascia contemplare. In cambio regala la pace preservata dal gelo dell’alba e dal tempo lento delle giornate rigide.
Qui, solo qui, capisco che non avrei potuto, allora, avere questo stesso sguardo. Che gli occhi diventano esperti in sguardi sottili dopo cinque decadi. Che tutti i sensi si affinano per percepire cose minuscole e preziose. Qui, d’inverno, nei colori del sottobosco, nell’argento delle gelate mattutine, e nella povertà indifesa di certi alberi, c’è qualcosa che mi rapisce e mi sorprende. Qui, il rimpianto esiste appena, quasi lo dimentico. In questo posto, d’inverno, ogni cosa è limpida. E mentre cammino, mi sembra quasi d’esser trasparente.


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