Sopravvivere all’empatia

Photo by Marcelo Jaboo on Pexels.com

Il mio è un lavoro di continui aggiornamenti e metamorfosi. Dopo due anni di pandemia è notevolmente cambiato. Di nuovo. Ancora.
Ogni volta che il mio lavoro cambia, io lo seguo e mi trasformo. Divento più introspettiva, più silenziosa, a tratti più pervicace. Sento la necessità di rallentare e interrogarmi con insistenza, sugli altri, su me stessa.

Negli ultimi tempi i racconti sul corpo e sul cibo si sono fatti dolorosi, a tratti feroci. Sono aumentati i disturbi legati alla nutrizione e all’alimentazione, si sono trasformati, hanno assunto caratteri nuovi, contorni più sfumati, aeree sovrapposte; la loro urgenza è più invasiva. Nella mia stanza di misurazioni e piani alimentari approdano narrazioni in cui il corpo è la parte offesa della storia, il cibo lo strumento con cui il corpo si racconta. E la malattia, che sempre più spesso conduce alla consultazione, diffonde in ogni anfratto, occupa spazio e tempo in modo pervicace. Oppure diventa insieme al corpo e al cibo un enorme buco nero che tutto ingoia e tutto poi rigurgita.

Oliver Sacks scrisse che tutti gli animali si ammalano, ma che soltanto l’essere umano “cade radicalmente in preda alla malattia”. Questo “cadere” è territorio di un movimento inarrestabile di racconti, ascolti, dubbi, riflessioni, tentativi di aiuto e risoluzione.
Mi dico spesso, immaginandone il sollievo, che si potrebbe passare oltre, limitarsi a registrare pesi e circonferenze, misurare pliche; non affacciarsi mai nel cortile buio e desolato di certe vite. Si potrebbe filtrare ogni narrazione, lasciar passare solo gli aggettivi moderati, i toni più accettabili. Si potrebbe affidarsi a una modalità anamnestica superficiale, sufficiente, fermarsi alla sua “forma di storia naturale” che, per citare ancora Sacks, nulla o poco direbbe dell’indole e dell’esperienza di chi la racconta. Potrebbe bastare. Ma l’identità è un’altra cosa. È una storia di figure archetipe, di miti, abbandoni, abusi, paure. L’identità è materiale prezioso e delicato. Per conoscerla e comprenderne la storia si deve andare oltre, lasciarsi invadere da certi racconti, spalancare gli occhi sulla fragilità e sull’abbrutimento, sulle ossessioni e sull’autosvalutazione. E fare i conti con tutto ciò che ne conseguirà.

C’è una certa propensione all’autoflagellazione nel voler osservare ogni cosa affiori dal racconto di una malattia o di un disagio transitorio che coinvolga il corpo e il suo cibo. C’è la consapevolezza del rispecchiamento che porta all’immedesimazione, al cortocircuito da cui origina la relazione di aiuto, con i suoi benefici e i suoi costi emotivi. Una cosa che chiamiamo nel suo complesso empatia. Da fuori ha un odore buono, ma nasce dalla finitezza che accumuna tutti, dai primi presagi di morte che dopo l’età di mezzo cominciamo a riconoscere e ad accogliere. Nasce da un grumo di precoce marcescenza.
C’è qualcosa di inumano e feroce in questo voler annusare certe disperazioni, certe paure, le ansie di un genitore, l’assertività dolorosa di un’adolescenze che si lascia emaciare dall’inedia, l’autosvalutazione di una persona che non vuole più prendersi cura di sé. C’è il paradosso di scovare l’usurpatore e lasciarsi occupare, sconfiggere, saccheggiare. Soppesare il giudizio che ferisce un individuo e sospendere totalmente il proprio. Esorcizzare lo stigma che colpisce gli altri attraverso l’annientamento di una parte di sé. E poi, la volontà di guidare, modificare, entrare nella vita altrui, sebbene il fine sia arrecare loro un vantaggio.

È questo che significa immedesimarsi, dunque? È questa l’empatia? Me lo chiedo ogni giorno, mentre continuo a farmi oggetto plastico di una disciplina che sugli altri funziona al contrario. Me lo chiedo mentre una bambina mi racconta di tutte le volte che qualcuno le ha intimato di non abbuffarsi, o davanti alle lacrime di un ragazzino vessato per il suo corpo minuto e femminile. Mentre mi sento lei, mentre mi sento lui, io continuo a chiedermi se sopravvivrò al cortocircuito, se riuscirò a guardare il trasparente e a vederlo nella sua interezza, e poi a ridurlo in frammenti da riassemblare senza ferire, senza ferirmi.
E faccio i conti con l’istinto tellurico e primordiale di prendere le distanze, di etichettare e omologare, giudicare, assolvere o condannare. Di difendermi, sentirmi migliore. Infine, tornare in superficie a respirare.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *