Da poco più di un mese ogni mattina al risveglio mi passo una mano sul seno destro. È il mio ultimo campo di battaglia, tangibile, di carne e pelle. Ce ne sono stati altri, negli anni, che non si vedono e che non posso toccare. Sono stata operata a dicembre, ma la battaglia è cominciata mesi prima, sotto il sensore ecografico della mia senologa che a un tratto smette di conversare e si avvicina al monitor con l’aria compunta. Qualcosa non la convince, dice che vuole rifarmi l’ecografia con un altro apparecchio. Ci spostiamo in un’altra stanza, mi stendo su un altro lettino, sotto un altro sensore. Lei seria, continua a studiarmi, l’anno scorso andava tutto bene, l’addensamento non c’era. Io non chiedo niente, io so già. Lo so per mia madre, per le donne che vedo nel mio studio e mi raccontano, per le statistiche che sono oracoli, perché ho l’età in cui accadono queste cose a tante di noi. Non dico niente, attendo che lei si decida a dare un responso, il via a una fatica che è già iniziata da quando ha smorzato la sua consueta cordialità e ha assunto quel piglio pensieroso. Continua a leggere su AlPassoCoiTempi