La scoperta

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La luce della lampada sul dettaglio dell’affresco crea una finestra luminosa su un mondo misterioso. Sabine osserva per un po’ il riquadro illuminato, prima di cominciare. È l’attimo che precede la scelta della tecnica, quello più delicato, prima della scoperta di ciò che il tempo ha nascosto stratificandosi.
È tornata al lavoro da poche settimane. Ha preso l’abitudine di lavorare negli orari in cui la squadra è altrove o di riposo. Pensierosa, solitaria, silenziosa più di un tempo, dopo quasi due anni di … malattia? Deve chiamarla così? Ancora non riesce a dare un nome a quella lontananza forzata una definizione e, quindi, una collocazione. È troppo presto, le dicono gli amici e i parenti; devi concederti tempo, la terapeuta.
Lo sguardo si sposta lentamente dalla zona illuminata a tutto l’affresco. Poi si allontana un po’, alza la testa, ne ammira l’ampiezza, ne immagina e pregusta la bellezza. Chissà cosa c’è sotto, quali colori, quale scena. Il restauro architettonico ha svelato, sotto intonaci recenti, una parete antica e annerita dal tempo e dallo sporco. Ha quasi paura di iniziare, Sabine, di perdere il senso di quell’attesa piena di meraviglia. Tergiversa. Si concede qualche altro minuto davanti alla finestra di restauro, anche se ha già deciso come iniziare il primo lavoro di pulizia.

Affiorano, intanto, pensieri che non vorrebbe avere e che deve imparare a sopportare, per non farsi male quando il ricordo comincerà a correre e sbattere da una parte all’altra del torace. Non si è ancora abituata – accadrà mai? – a questa nuova estenuante guerra di reminiscenze che, ogni volta, la lascia senza energie. Col tempo, le hanno detto e ripetuto. Perché solo il tempo guarisce. La migliore medicina.
Con le mani riavvia i capelli all’indietro e li raccoglie dietro le orecchie. I riccioli non sfuggono, incastrati, immobili in attesa che la fascia elasticizzata li mantenga lontani dagli occhi.

Lontano dagli occhi, lontano dal cuore, le aveva detto lui quando era andata a fare lo stage a Parigi. Solo pochi giorni, tornerò presto. Perché non mi vuoi con te, le aveva chiesto lui senza darsi pace. Chi ti aspetta laggiù, con chi devi vederti? Lei sorrideva e lo scherniva per quella gelosia fuori luogo. Voleva andarci da sola allo stage, per concentrarsi meglio sullo studio, non avere distrazioni, rendere al massimo. L’aveva accompagnata al gate, inquieto. Nemmeno un sorriso. Un bacio rapace, coi polpastrelli premuti con forza nella schiena di lei. Lo amava moltissimo. Anche s’è geloso? Ma sì, quando vivremo insieme gli passerà. Anche se a volte ti fa sentire in colpa? È il suo modo giocare. Anche se ti chiama continuamente per sapere dove sei? È perché non vuole perdersi niente.
C’era già, in fondo, un impercettibile disagio. Spine, asperità, increspature. Una domanda che non prendeva forma né suono e che lei aveva continuato a ignorare, presa com’era da tutto quell’amore così coinvolgente. Due persone in una sola, mescolanza di fiati e pelle, il suo odore fra le lenzuola anche quando non c’era.

Lentamente e senza smettere di guardare la zona illuminata, Sabine, si avvicina al tavolo degli strumenti e comincia a preparare dei batuffoli di ovatta. In fila, piccole nuvole allineate. I guanti. L’acqua e il sapone. I solventi, un po’ più in là, con i tappi ben incastrati per evitare esalazioni. Comincia con acqua e sapone, sperando che possa bastare a smascherare un primo dettaglio dell’affresco. L’ovatta lentamente descrive un’area dapprima ovale, poi si allarga e definisce un rettangolo. Il grigio superficiale sembra sciogliersi e farsi da parte fagocitato dalla nuvola idrofila. Un colore giallo pallido, sotto. Non basta, il tempo ha lavorato con tenacia per oscurare l’affresco. Toglie il tappo al barattolo di un solvente, imbeve un altro batuffolo e l’odore si propaga rapidamente nell’aria. Pensa alle molecole volatili come spiritelli che sfuggono e si librano in volo. Le torna in mente un gioco che faceva da bambina con suo padre.
Lui la tirava su, lei volava con le braccia aperte e il vestito le si gonfiava d’aria. Il volo più bello del mondo. Mamma rideva vedendoci giocare, ricordi papà. Anche il giorno del mio matrimonio facemmo un gioco, io e te, e mamma si commosse, ricordi papà: mi prendesti le mani e ci mettemmo a fare un girotondo vorticoso su quella musica che ti piaceva tanto. Mi gira la testa, piano che ho bevuto un po’. Mi abbracciasti e con le lacrime agli occhi mi dicesti che saresti stato sempre presente, qualsiasi cosa fosse accaduta. Un presentimento, papà?

Via quel pensiero. Via il ricordo. Lavora, Sabine.

Ancora un batuffolo imbevuto e poi il bloccante, così si chiama il prodotto che inibisce la reazione innescata dal solvente. Ogni veleno ha un antidoto, pensa, tutto si risolve e dissolve, passa, cambia. Quasi tutto.
Un’altra volta il solvente, subito dopo il bloccante. Veleno, antidoto. Trapela un giallo che diventa quasi bianco. Delle righe scure, forse. Aggiusta la lampada per indirizzare meglio il fascio di luce. Non riesce a capire di cosa si tratti. Continua, allora, con quel contegno che fa dei restauratori pazienti artisti della scoperta, esploratori di realtà dimenticate. Quanto tempo ha impiegato l’artista a dipingere l’affresco? Immaginava che sarebbe la sua opera sarebbe arrivata fin qui, sotto il suo sguardo e la sua curiosità?
I batuffoli utilizzati si accumulano in un secchio accanto a lei, scuri, umidi e compattati dalla pressione delle dita, dimentichi della loro primigenia leggera consistenza.

Quando, dopo l’ennesimo litigio violento, si era resa conto che niente sarebbe cambiato  pensò alle parole giuste per non ferirlo. Come fosse sua madre.
Sapeva che non sarebbe stato facile andare via. Chiamò suo padre per un po’ di coraggio: papà, lo lascio per un po’, voglio tornare a casa. Suo padre sarebbe corso da lei ma, no, doveva restare un affare fra marito e moglie. Troverò il modo, vedrai. Glielo dirò fuori, non saremo soli, non farà scenate.
Sabine chiese al marito di raggiungerla dopo il lavoro davanti a un ristorante molto frequentato. Erano stati anni di gelosia e amore, violenza e dolcezza. Veleno e antidoto. Era stanca, gli avrebbe detto che non ce la faceva più e che pensava di allontanarsi per un po’, tornare dai suoi e poi …
Lui non attese l’ora dell’incontro. Sabine se lo trovò davanti nella cripta in cui stava lavorando oltre l’orario canonico. La squadra era appena andata via. Urlarono. Lui la strinse forte. Lei si divincolò. Lasciami andare, torna a casa adesso. Ho bisogno di starti lontana.
Lui si girò per uscire. Poi, uno sparo. Lei si accascia come un fantoccio.
Un altro sparo. Lui è sul pavimento antico e freddo. La sagoma della testa interrotta in un punto da cui diffonde una macchia scura e densa. L’eco duplice. Terribile. Onde acustiche si sovrappongono, si incuneano nella cripta, percorrono rapidamente i corridoi angusti e deflagrano all’esterno. La chiesa, con le navate e gli archi e le ogive e gli altari, le amplifica e restituisce il suono terrificante di un boato.

Piccoli segni scuri trapelano dopo l’ennesimo batuffolo imbevuto di solvente e il successivo di bloccante. Veleno, antidoto.
Sabine si china sulla parete e inclina la testa per cercare di mettere a fuoco e dare un senso al dettaglio che sta emergendo. Le sembra di intuire la presenza di pagine, di una scrittura fitta, forse è l’immagine di un libro. Ecco l’altro momento che adora: l’intuizione di ciò che il suo lavoro svela. Sorride, col dorso della mano destra fa come per asciugarsi il sudore, un gesto rituale che ripete ogni volta che pensa di aver raggiunto un obiettivo.
Alza la testa, guarda la parete e sorride ancora. Domani dirà ai ragazzi come procedere con le parti più in alto. Sarà un lavoro duro, ma ha capito come farlo e ha già svelato un piccolo frammento in basso. Un libro, sì, forse una bibbia. I ragazzi della squadra saranno contenti.
All’improvviso si sente stanca. Guarda l’orologio. Non si è resa conto di aver lavorato per ore. I medici le hanno raccomandato di suddividere il lavoro in piccoli intervalli che non superino mai le due ore. Ma a volte se ne dimentica e pensa che sia un buon segno. Tornerà a casa, adesso, a sfogliare i suoi testi di storia dell’arte e restauro per cercare un indizio che possa condurla un passo più là dell’intuizione.
Si sfila i guanti, libera i capelli dalla fascia e e beve un sorso d’acqua.
Gira le spalle all’affresco con un rapido movimento delle mani sulla sedia a rotelle e, senza spegnere la luce, si allontana.

© giusi d’urso

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