Accanto alla macchina del caffè, fra due mensole di bottiglie allineate come ballerine, è attaccata l’immagine di un Cristo benedicente. Il viso è quello dell’uomo giovane e bello dalla lunga chioma che ad Andrea ha sempre ricordato i capelloni degli anni settanta, un pensiero che corregge ogni volta con un altro: troppo pettinato per essere un hippy. Sorride fra sé.
Nell’aria, le note di Nothing compares to you. Segue il motivo che conosce a memoria, una delle loro canzoni, una vita fa. Gli acuti di Sinead O’Connor gli graffiano qualcosa dentro. Lamiere che stridono nel petto, dove il respiro a volte si fa troppo corto e gli mozza le parole. Una sensazione che avverte da qualche tempo e che, dice il suo medico, viene della rabbia che lo ha allontanato da tutti.
A pensarci bene, forse non era rabbia quella morsa che gli stringeva il petto e lo faceva sproloquiare contro ogni cosa gli balzasse allo sguardo storta o ingiusta. Come la può chiamare adesso che se n’è allontanato? Frustrazione? Infelicità? È davvero così urgente dare un nome a quello che ha passato? Lo è di più guardarsi intorno e sopportare di non vedere nessuno.
Con lei era stato amore subito. Amore al contrario. Senza quella conoscenza che viene dal corteggiamento, qualche piccola propedeutica schermaglia, domani la pizza e il cinema, dopodomani la passeggiata al mare e poi ti bacio perché prima ti bacio e prima ti dico che forse è amore e che voglio stare con te. C’era stato, invece, prima lo stare insieme a letto e dopo tutto il resto. In certi mondi alla rovescia prima ci si gode la pace e poi ci si fa la guerra. Non sarebbe così grave se quella strana trincea non rimanesse a lungo tra le cose di ogni giorno, se non ci si adagiasse l’arma nei momenti buoni per sparare di notte quando tutto intorno cede. Perché a volte capita. La pace come un vecchio tetto pericolante cede.
Quella guerra non l’aveva vinta nessuno, ma lui, che di quel rancore cupo e profondo non si era liberato, aveva perso di più.
Il Cristo appeso al muro guarda tutti negli occhi. Ovunque ti sposti, nello spazio affollato dai clienti del bar, lui ti segue e ti mette a disagio, come una domanda scomoda. Quel quadro gliene ricorda un altro a casa di sua nonna, nei pomeriggi da recluso, quando sua madre rimaneva a lavorare fino a tardi e lui restava suo malgrado davanti alla stufa a legna a fare i compiti. Sua madre era bella, ma adesso a volte gli capita di non riuscire a ricordarne con nitidezza i tratti del viso. Di suo padre non ha mai saputo nulla e, al contrario, crede di metterne a fuoco le sembianze.
Mentre la canzone va, Andrea punta gli occhi su un graffio del tavolino: sdraiarsi sfinito in fondo alla trincea, rassegnandosi alla solitudine? Ci sono le parole di lei a demolire certe resistenze, da soli non si va da nessuna parte, ti sei perso, lasciati ritrovare. E c’è il rifiuto di farsi giudicare. Il giudizio è una ghigliottina. Lui è diverso da come pensano, non sopporta l’etichetta di uomo fragile.
Tell me baby where did I go wrong…
Il bar si sta svuotando. Andrea si rende conto solo adesso che è quasi sera. Le ombre lunghe dei clienti invadono il pavimento vicino all’uscita per un attimo prima di sparire. Non riesce a vedere niente. Il Cristo invece è ancora lì, lo fissa dalla nicchia fra le bottiglie allineate e la macchina del caffè, con la sua domanda insistente: chiedere aiuto? Lui che non ha mai avuto bisogno di nessuno?
Da bambino era scappato a volte, era rimasto a girovagare per intere giornate mentre sua madre faceva i conti con una domanda pressante: meglio da sola o con l’uomo sbagliato? Domande da grandi, ma Andrea si si era acquattato aspettando che il suo padre Ulisse tornasse dal mare. Chissà se lo avrebbe riconosciuto.
Poi, basta. La rabbia. E nient’altro.
Tell me baby where did I go wrong…
Qualcuno appoggia lo scontrino accanto alla tazzina vuota, Andrea sa che è un invito a pagare e uscire. La canzone è finita. Si fruga nelle tasche e lascia qualche spicciolo accanto allo scontrino. Si gira per un saluto rapido al barista e incrocia di nuovo lo sguardo del Cristo, ancora lì, con quella sua domanda.
Fuori il tramonto ha allungato ombre sotto i portici ed esaltato riflessi di vetrine che si preparano alla chiusura. Esce con le mani in tasca, tirando su col naso e chiudendo gli occhi per un secondo. La strada è quella di sempre. Il passo è lento per qualche metro. Poi, si fa rapido e procede nel buio che arriva. La città non è mai stata una buona consigliera.
© giusi d’urso
Immagine di Giulia Frassi