– Avrà freddo lì fuori?
– Ma no, secondo me è abituata, viene dall’Ucraina.
– Davvero?
– Sì, mi ha detto Giorgio che è nata a Kiev, ma non so altro.
– Secondo te quanti anni ha?
– Che ne so? Non l’ho mica guardata, mi mette inquietudine.
I due colleghi parlano di una una giovane donna dai capelli cortissimi e i denti marci che da qualche giorno rimane per ore seduta sul gradino dell’ingresso della Scuola Medica a fumare la pipa e sfogliare articoli scientifici, sia che piova o tiri vento. Non si muove da lì per ore, concentratissima sulla sua attività, fino a quando non ha terminato la lettura o non è arrivato il momento di svuotare la pipa e riempirla di tabacco nuovo. Si è attrezzata con un sacchetto di plastica agganciato alla ringhiera per non sporcare con i suoi rifiuti. Ogni tanto, mentre fuma sorseggia una coca cola. La lattina vuota resta accanto a lei per ospitare la cicca di qualche sigaretta, nel caso le venga voglia di fumare altro. Poi, anche quel rifiuto viene infilato nella busta di plastica.
Una notte di aprile, Anitchka, dormiva nella sua stanza a un passo dai suoi genitori. Suo fratello, nella culla di fianco al letto matrimoniale, era nato da poco e lei da sei anni. Quella notte un’ombra s’insinuò nella sua casa invadendo pareti, coperte, alimenti, vestiti, come accade con l’acqua durante un’alluvione.
I due giovani alla finestra al primo piano, intenti a godersi la loro unica sigaretta del mattino, stanno ricostruendo, con le poche informazioni reperite e molta fantasia, la vita della donna dello sputo. Così è stata battezzata dai medici e dagli studenti della Scuola, per quel tic strano che le fa sputacchiare di qua e di là il tabacco che ogni tanto mastica. Non sanno nulla in realtà, ma quella donna è così strana, come la sua improvvisa comparsa nei paraggi della Scuola, che ognuno mostra la necessità impellente di cucirle addosso pezzi di vita più o meno probabili. Il solo fatto di sedere su quei gradini pare renda necessaria l’esternazione di una qualche notizia. Così qualcuno ha raccontato pochi giorni fa di averla sentita sussurrare qualcosa in faccia a un gruppo di studenti in quella sua lingua dura dai suoni stretti come vicoli; qualcun altro ha arricchito il racconto col dettaglio della postura e della camminata mascolina. Altri hanno notato l’abbigliamento piuttosto sobrio e in particolare il giaccone di almeno due taglie più grande e di colore scuro. I capelli di un biondo pagliericcio, cortissimi e divisi da una scriminatura decisa e domata dal gel. A guardarla bene, ha l’aspetto di un soldato, un reduce, minuto, un po’ perso nella sua divisa troppo larga, ma con l’espressione straniata di chi è stato a lungo in trincea.
Da qualche giorno, quindi, questa donna praticamente sconosciuta, se ne sta a prendersi le intemperie seduta su quel gradino. Ogni volta che qualcuno le passa accanto si gira verso il malcapitato, digrigna i denti marci e lancia uno sputo di tabacco. Il gesto, ma solo quello, ricorda un po’ quei vecchi mandriani delle pianure americane dei secoli scorsi. Si resta inebetiti, a dire il vero, e non si sa se ridere, lasciar perdere o infuriarsi. Il suo sguardo è così duro e ottuso da scoraggiare alla fine ogni tipo di reazione diretta.
Alla centrale nessuno sapeva di Anitchka, nessuno poteva immaginare che di lì a poche ore sarebbe rimasta sola. Tra la centrale e Anitchka e oltre ancora la sua casa, migliaia di bambini, di adulti, di vecchi si sarebbero disintegrati senza mai sapere niente gli uni degli altri. Il triste destino delle morti imprevedibili e collettive. Nessuno ha il tempo di essere avvisato e di avvisare. Nessuna consolazione fra parenti, amici, semplici conoscenti o perfetti sconosciuti. Senza sapere nulla si sparisce.
– Chissà com’è arrivata fino a qui.
– Pare abbia una borsa di studio al dipartimento di psicologia clinica.
– Ma capisce l’italiano, secondo te?
– Non credo, legge l’inglese, parla sempre nella sua lingua, l’hai sentita anche tu l’altro giorno, quando ci ha sputato il suo tabacco sulle scarpe e ha blaterato qualcosa da quei denti marci.
– Ma tutti qui vengono? Tutti noi li troviamo?
Sorridono, sarcastici. La pausa è terminata, danno ancora un’occhiata furtiva alla donna, chiudono la finestra e tornano al lavoro.
Anitchka continua a leggere fumando la pipa. Ogni tanto la tiene sospesa fra le labbra e si frega le mani, prima di girare la pagina, senza perdere la posizione iniziale, scuotendosi solo un poco e per qualche secondo.
A un tratto, appoggia i fogli sulle gambe, tira fuori dalla tasca del giaccone un notes, una penna e scrive. Torna a leggere, in quella sua postura composta e rigida, e in breve tempo arriva all’ultima frase dell’ultima pagina. Svuota la pipa, annoda il sacchetto pieno di tabacco tiepido e lo ripone in tasca. Si abbottona bene fino al collo e si avvia all’uscita del cortile della Scuola Medica col solito passo da reduce.
Il 26 aprile 1986 a Chernobyl finì il mondo, ma si seppe qualche giorno dopo.
© giusi d’urso
Foto di Antonio Dillard