Ieri ho accompagnato mia madre a Livorno. Questioni sue, nostre, complicate, di affetti forti e disperati. In macchina ha pianto all’idea dell’abbandono di qualcuno che le è molto caro. L’ho consolata come ho potuto, come ho saputo. Per tutto il giorno mille cose sono tornate a galla con quell’etichetta di sofferenza inevitabile, con l’inconfondibile connotazione del ricordo tagliente. Gli strappi. Ecco. Così ho catalogato quei pensieri.
Quanti strappi possiamo sopportare? Con quale filo li possiamo rammendare? Mentre mi pongo domande difficili sento che le forze sono insufficienti a un lavoro di cucito così certosino e urgente. Perché alcuni strappi somigliano a disfacimenti, come l’abbandono precoce di me bambina in un territorio adulto, come la rinuncia alla vita da ragazza perché urgevano soluzioni da grandi. Altri sono tagli netti, come la perdita di un padre che muore troppo presto, di un amore che non poteva sopravvivere, di una terra che non ha offerto soluzioni, di una zia del cuore cui non basta più l’affetto.
Tornando da Livorno ho guidato con una mano sola per non lasciare quella di mia madre che mi sedeva accanto. Come se da quel contatto di superfici minime fluisse linfa di coraggio e pacificazione. Se dai miei anni ai suoi, dalle mie scorte di figlia cresciuta a pane e saggezza al suo esausto serbatoio di madre-sorella, o al contrario, questo devo ancora capirlo. Di certo c’è stato quel contatto e il suo beneficio momentaneo. Il resto arriverà fra un po’, perché gli abbandoni feriscono a rate: prima lacerano, poi sanguinano, dopo ancora macerano.
Tornate a casa ho abbracciato mia madre come mi capita di abbracciare gli alberi, attendendo conforto da forze lontane e telluriche. Le sue radici sono forti, i suoi rami meno. Si è appoggiata a me che ho fronde piene di dubbi e speranze. Ma è così che funziona. È così che sarà, da qui in poi.