Le undici di un sabato sera. In attesa del treno ha preso un giornale e della liquirizia. Conosce i gusti di sua madre, la donna sul binario nel suo largo cappotto scuro. L’anno scorso la taglia era giusta e suo padre non era così alto e robusto accanto a lei, né aveva occhiaie così profonde e labbra piegate in basso da un grumo di dolore appeso.
Il treno è stato annunciato. Ale se ne sta a un passo dai suoi. La madre si avvicina per il resoconto su pietanze pronte da scaldare. Torneranno l’indomani. La terapia la mattina, in un posto in cui è sempre lunedì anche di domenica, il tempo per parlare con i dottori che si faranno attendere, in serata il treno del ritorno.
Ventitré e zero cinque. Il treno parte con quel rumore che ad Ale stride in un posto che ignorava di avere fino a un anno fa, quando sua madre si è ammalata. Faccenda seria, terapie pesanti che sembrano funzionare, poi il male attacca di nuovo e quasi la finisce. Questo è il viaggio delle cure estreme e delle speranze che sono sempre le ultime a capire.
Ale rientra e raggiunge il gruppo. Andiamo a ballare e poi a casa mia, sussurra all’orecchio di Anna, bella da perdere la testa. La techno spacca, lui ha bisogno di bere per non vedere il viso smunto di sua madre al finestrino. Un bicchiere, una pasticca, solo stasera. Alle tre lui e Anna sono a casa. La spoglia nell’ingresso, una mano fra le gambe. Fanno l’amore contro la porta, lei gli chiede di fare piano, lui spinge con forza e le viene dentro. Stasera è così. Sono colpevole, signor giudice, stasera ho voglia di fottere la vita. Nessuna pietà per questo figlio ingrato che succhia energie dal dolore altrui.
Al mattino è inquieto, il sonno è lontano, il telefono spento. Fa freddo, vanno al mare, Ale corre a piedi scalzi nell’acqua gelata e Anna lo aspetta intirizzita sulla spiaggia. Lui la guarda, livido: è bella anche la domenica mattina senza trucco.
Vagano per la città senza progetti. Si fermano davanti a un tatoo aperto, entrano, lui vuole un falco sul braccio. Lo incanta la fierezza delle ali che tagliano l’aria notturna. Il dolore è sopportabile. Chiude gli occhi e rivede i lividi sul collo, sull’addome, sulle braccia di sua madre: un tradimento tatuato ovunque.
Anna dopo lo abbraccia evitando la zona del falco: ha ceduto parte di lui a un rapace. Cosa non si fa per amore. Camminano e si baciano in quella città che ha già consumato il tempo fino al pomeriggio. C’è ancora luce, potrebbero partire e non tornare più. Lei propone un panino e un giro per negozi, è quasi Natale, facciamo acquisti, dice garrula. Alle luci feroci del grande magazzino lei ammira i guanti di pelle che non ha mai avuto. Ale li infila in tasca. Sei matto? Ridono. Poi un bracciale di cuoio, un rossetto, un foulard. Ma che ti prende, non si può, non si fa. Lui non ascolta, la tira verso l’uscita col cuore a mille. Oltre la soglia, nessun allarme, nessun al ladro. Liberi. Girano veloci l’angolo di corsa ridendo come bambini.
È già buio. Si salutano davanti a un portone accostato.
Ale cammina a lungo, solo e silenzioso, senza fame né sete, solo l’attesa del ritorno. Legge i messaggi di suo padre.
Ieri: arrivati.
Oggi: mamma è in terapia. Dicono che non c’è più tempo.
Corre senza sapere quando ha cominciato. L’aria è fredda, il falco pulsa sotto il piumino, il fiato brucia nel petto. È sul binario ma il treno tarda. Non ci si può fidare dei treni, fai un programma e te lo mandano a puttane.
Eccolo fermarsi davanti a lui col solito fragore. Ale scorge i suoi tra la folla in discesa e in quel momento vorrebbe un silenzio di pietà per quel ritorno e l’esiguo tempo che rimane.
È mezzanotte. La gente si accalca e non fa che vociare, viva, sullo stridore del treno che lento riparte.
© giusi d’urso