D’autunno, attorno agli aceri c’è un tappeto di pigmenti caldi che rende l’atmosfera quasi festosa. Una festa parca di colori che virano dal giallo al rosso senza fastidio per gli occhi. Anzi, sembra quasi una consolazione sensoriale in cui la vista, per l’appunto, riposa.
All’uomo che, solitario, si va riempiendo gli occhi di quella meraviglia, pare un luogo fatto apposta per la nostalgia che lo prende ogni tanto; per quei momenti di pigro rimestare fra i ricordi, utili a riprendere le fila della vita.
E com’è quella sua vita strana? Si appresta a rispondersi come di consueto, quando i ragazzi della scuola vicina, usciti in cortile per quel tempo dovuto alla ricreazione, lo distraggono e lo conducono a quando fra i banchi non sapeva ancora cosa sarebbe stato. Vede fra le sbarre del cancello i giochi ruvidi dei maschi, i salti, gli spintoni. Lui non è fra quelli, non lo è mai stato, sta in disparte e li guarda mentre fanno finta di scazzottare per una figurina, una ragazza, una sigaretta fumata di nascosto. Si aggrovigliano fra manate e risa scomposte, le urla arrivano fino alla panchina. Lui non urla, non lo ha mai fatto, resta silenzioso sui gradini del cortile.
Poi la campanella chiama e tutti rientrano rumorosamente in classe. Li vede, svogliati, ammiccare e lamentarsi. Lui si mette in fila, zitto, e torna dentro senza protestare. Era così.
E com’è insomma quella sua vita strana e solitaria? Ha un lavoro sicuro, l’uomo, di quelli che ti mettono davanti alla fine di ogni cosa. Tavolo autoptico, bisturi, l’esalazione della vita ch’è sfuggita, il colore della morte che l’ha soppiantata. Lo chiamano, a volte, anche di domenica. E lui accorre, s’infila camice e guanti, attende direttive dal medico legale. E ancora una vita fuggita via, la morte fra le mani, carni pallide che sembrano finte. Un anziano morto in ospedale, un ragazzo in un incidente, una donna da sola nel suo letto. Misteri che su quel tavolo sembrano carte da gioco scoperte. E’ così straziante, l’ovvietà della morte.
L’uomo non ne parla con nessuno, ché quello non è argomento di conversazione. Fa il suo lavoro meglio che può. E’ preciso, meticoloso, distaccato. I medici lo stimano.
A sera, una volta a casa, cerca la penombra. Si lava le mani mille volte, lascia che l’acqua scorra copiosa, usa il sapone, una spazzola ruvida sui palmi. Poi esce a mangiare nella solita trattoria. Niente carne, per favore. Al più un uovo con le rape. Nel piatto, colori lontani da quelli del giorno.
Non sapeva rispondere quando a scuola gli chiedevano cosa sarebbe diventato. Non è un lavoro che si può prevedere. Ma poi, la vita sceglie. Prima il corso di medicina, salvare la vita, anatomia, anfratti segreti dei corpi come combinazioni da svelare. Salvare la vita.
Poi tutto era andato storto. Aveva smesso. C’era stata l’occasione di un concorso come tecnico di supporto in sala autoptica e per la rinuncia del primo in graduatoria si era ritrovato primo a sua volta. Aveva accettato. E non potendo salvare vite si era trovato a interrogare la morte.
Il cortile della scuola si è riempito di voci un’altra volta. Fanno ginnastica, gli studenti. Muovono agili leve di arti sui fulcri d’ossa e cartilagini. Lui guarda immaginando il lavoro perfetto di capsule articolari e muscoli. Le scapole allontanarsi per la presa di un pallone volato in alto. La spinta sull’avampiede un secondo prima del salto. E corre con loro come non ha mai fatto prima. Corre, restando sulla panchina, a prendere la palla e buttarla al di là della rete, a battere il cinque sul palmo del compagno. Urla con loro e si rammarica di essersi perso l’inizio. Tiene a mente il punteggio e ride, mentre li vede abbracciarsi dopo aver segnato un punto.
Poi, d’improvviso è l’ora di rientrare. Si abbottona il cappotto sul petto, scuote la testa, sorride ripensando alla partita giocata da lontano, e in silenzio, con tutta quella vita negli occhi, si allontana dal tappeto di foglie rosse.
@ giusi d’urso
(immagine dell’autrice)