Sottrazioni

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La poltrona che ho scelto è di fronte alla reception. L’ho scelta fra un divano rosso e una sua gemella, posizionata di fronte. Mi ha convinto il suo marrone chiaro, mimetico, sul parquet opaco. Per la sua posizione, l’ho scelta, concedendomi un’ampia prospettiva sulla hall.
Sto qui da un po’, con un giornale fra le mani ma non leggo. Accanto, un tavolino con un vaso di fiori freschi, margherite senza profumo. Diffonde nell’aria, invece, un sentore di lavanda sintetico, deodorante ambientale, che a tratti si mescola a quello pungente di limone, appena l’aria è mossa dal via vai dei clienti o dall’apertura delle porte.
C’è questa donnetta china sul manico di uno spazzolone, ha il corpo minuto proiettato in basso, con un eccesso di gravità sul dorso, una pena che non si vede. Solerte, pulisce tra i vasi e negli angoli, la zona antistante l’ascensore. I capelli, raccolti in una cuffietta a righe azzurrine e fitte, sono scuri e lucidi e sulla nuca ripiegano verso l’alto. Strofina con energia il pavimento, a occhi bassi, sollevando le ciglia solo per accennare un saluto ai clienti.
La coppia di turisti che ha appena lasciato la chiave e si è avviata fuori le è passata davanti senza salutare, lei si è fermata per non intralciare, ha sorriso appena e salutato con un cenno della testa. Ho intravisto il taglio degli occhi a mandorla e la bocca piccola, gli angoli rivolti verso il basso, animati dall’istante del sorriso, e poi tornati giù.

Mentre mi ostino senza un motivo a osservarla sono distratto da un tramestio proveniente dalla porta d’ingresso. Rumore di valigie con le ruote, il facchino si dirige prontamente verso i nuovi arrivati, al banco un ragazzone biondo e prestante si prepara al check-in col suo sorriso migliore. La donna appena entrata è magrissima, stretta in un abitino blu che fascia spigoli di scapole e fianchi. Si avvicina alla reception e sussurra il necessario. Ringrazia, procede verso l’ascensore, evitando l’area umida di straccio appena dato.
Il mio sguardo l’accompagna fino alla chiusura delle porte e immagina una modella. Ne ho misurato con occhio severo le proporzioni e me la sono immaginata stretta in un’angoscia di inedia e sacrifici. L’incarto bello di un inferno.
Intanto la piccola donna dello straccio ha terminato il suo lavoro. E per me è l’ora di andare.

Firenze è una città eccessiva. Ha quell’abbondanza di cose belle che finiscono per stordirti e lasciarti sfinito e insoddisfatto in fondo alle giornate. Ho scelto di venirci da solo, questa volta, ho bisogno di vagare, perdermi in questa folla delirante con le mappe in una mano e il cellulare nell’altra. Torno a casa fra qualche giorno, devo una risposta. Lei vuole andare via. Io vorrei che rimanesse. Pensaci, mi ha detto, le cose iniziano e finiscono, anche le più belle. Porta via con sé nostra figlia. La sottrae al mio sguardo di padre in adorazione, alla mia gelosia malcelata verso il suo corpo in boccio. Anche il resto di noi due insieme, porta via. Svuota la casa di una complicità di sguardi e di lenzuola. Mi deruba dell’intimità del nostro letto. Cose di cui ho ancora un bisogno scellerato.
Vago per tutto il giorno, guardo molte cose senza vedere niente. Rientro che le ombre si sono già allungate e la poltrona mi attende come un cane.

C’è un che di agitato alla reception. Il turno è cambiato e al banco adesso c’è un signore brizzolato e arcigno. Ha un movimento brusco nelle mani e una rigidità di toni nella voce. Davanti, la modella, fasciata nel suo abitino blu, tenta di spiegare un malinteso. Ma no, dice, non intendevo portar via nulla, avrei restituito ogni cosa.
L’uomo è diffidente, dagli angoli della bocca pencola un’accusa silenziosa ed eloquente. Lei continua, gesticola, alza il tono della voce ma non è pretenziosa, anzi, mi arriva un suono come di lamentazione, una cantilena di scuse e giustificazioni. Chiedo scusa, dice, non so come sia accaduto, è un istinto senza cattiveria quello di sottrarre oggetti nei luoghi in cui mi trovo.
Dall’angolo estremo della hall arriva nel mio capo visivo la piccola donna dello straccio. Si dirige al banco e con un inchino chiede a bassa voce di poter parlare. L’uomo le fa un cenno per darle la parola e lei con fare timido e prudente dice che anche sua sorella soffre di quel male così strano e che, mentre sottrae oggetti dai luoghi che attraversa, è in evidente stato di trance, una sorta d’innocente estraniamento.
Intanto l’uomo, ha svuotato sul banco il contenuto del beauty-case dell’ospite. La donna piccola sorride e continua a parlare piano, con una calma che diffonde fino a me. Mette pace.
L’altra la guarda e ringrazia, una mano scarna e ben curata si allunga sulla schiena curva e la voce ancora declina gratitudine. L’uomo si acquieta, ostenta un gesto di magnanimità o finta comprensione e congeda la modella.

Sono improvvisamente stanco. Mi rendo conto di avere le mani sudate, incollate alla pelle della poltrona marrone e di aver segretamente combattuto per qualcosa. Per le cose incontrovertibili del mondo. Per il parquet pulito, per le sottrazioni d’esistenza, per ciò che inizia e che finisce e che, in un modo o nell’altro, a un certo punto va lasciato andare.

© giusi d’urso

(L’immagine è di proprietà dell’autrice)

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